Il conflitto in Afghanistan è la guerra più lunga che gli Stati Uniti abbiano mai combattuto. È stata chiamata in molti modi, ma il termine sui cui convergono monti esperti è “Long War”, la lunga guerra. Un confronto che fa impallidire gli impegni nei due conflitti mondiali, o il disastro del Vietnam. Washington ha messo piede in Afghanistan il 7 ottobre del 2001 (meno di un mese dopo l’11 settembre), e da allora non se ne più andata. Almeno fino ad ora. I recenti sconvolgimenti dentro l’amministrazione Trump mostrano che forse qualcosa sta per cambiare. Il presidente, in aperta rottura con il suo segretario alla Difesa, Jim Mattis, ha annunciato l’intenzione di iniziare il ritiro definitivo dal Paese.

anni guerra usa beta





Verso il ritiro di 7 mila uomini nei primi mesi del 2019

Il 20 dicembre il New York Times ha scritto che almeno due funzionari della Difesa avrebbero confermato che entro la primavera almeno 7mila uomini sarebbero pronti a lasciare il Paese, di fatto dimezzando l’impegno americano. Una mossa, quella di Trump, che ha completamente spiazzato le autorità afghane che non sospettavano niente. Funzionari militari americani e forze di sicurezza del Paese sono state letteralmente gettate nel panico anche se più di qualcuno ha detto al Times che si temevano scelte drastiche data l’imprevedibilità del tycoon. Se i numeri fossero confermati si tratterebbe del livello di truppe più basso dal marzo 2002 quando iniziò l’operazione Anaconda, la battaglia più significativa delle prime fasi dell’intervento.

I compiti del contingente Usa in Afghanistan

Fino ai primi mesi del 2017 il Pentagono forniva numeri aggiornati sul contingente presente in Afghanistan ma un anno dopo l’insediamento di Trump le cifre hanno smesso di arrivare. Il database pubblico noto come Dmdc (Defense Manpower Data Center) che fa capo alla gestione del personale del dipartimento della Difesa americano, non riporta più il numero dei soldati stanziati nel Paese. Per avere un’idea è necessario appoggiarsi ai resoconti della stampa americana che si basa su rivelazioni di varie fonti, ma un numero preciso è impossibile da ottenere. Si stima che al momento ci siano circa 14mila soldati, una quota che, sempre secondo una stima, sarebbe stata raggiunta un anno fa con l’aumento di 4mila uomini voluto dalla Casa Bianca.

truppe usa af

Attualmente gli uomini sono impegnati in due distinte attività. La prima, sotto la bandiera Nato, è la missione Resolute Support che assorbe 8.475 mila soldati del contingente a stelle e strisce. Il secondo dispositivo è invece totalmente americano, si tratta dell’Operazione Freedom’s Sentinel che si occupa delle operazioni di antiterrorismo contro Al Qaeda (che fino all’11 settembre aveva proprio nel Paese la sua base) e lo Stato islamico. Senza contare il supporto, soprattutto aereo, alle operazioni dell’esercito afgano contro l’insorgenza talebana. In teoria, ha scritto ancora il Times, la ritirata dovrebbe coinvolgere entrambe le missioni.

nato af

La mossa di Trump arriva in un momento, e soprattutto in un anno, molto caotico per il Paese. E le conseguenze del ritiro potrebbero essere imprevedibili. Ma per capire come la mossa della Casa Bianca potrebbe impattare sul futuro del Paese e in generale in tutta l’area è necessario fare un passo indietro e capire come è iniziato il più lungo conflitto della storia americana.

contractor af

La genesi del conflitto

Il conflitto è stato talmente lungo da poter essere diviso e spacchettato in varie fasi. Ufficialmente gli americani hanno iniziato il loro intervento a ridosso dell’attacco contro il World Trade center, in seguito al rigetto dei talebani di consegnare Osama Bin Laden. Il dato forse più significativo è che la forza militare americana impegnata nel Paese è stata piuttosto bassa nella prima fase della guerra.

Fino al 2005 i soldati Usa non hanno mai superato le 10mila unità e la caduta del regime talebano è stata spinta soprattutto dall’offensiva dell’Alleanza del Nord supportata dai bombardamenti aerei. La fase più complessa del conflitto si è sviluppata negli anni successivi, quando i talebani hanno iniziato una violenta guerriglia.

Tra il 2007 e 2008 la nuova insurrezione dei miliziani guidati dal Mullah Omar ha spinto il primo aumento di truppe da parte degli Usa, avvenuto nel 2009, come ultimo atto dell’amministrazione di George W. Bush. Nel frattempo anche la Nato ha iniziato le operazioni nel Paese con la missione Isaf. Verso la fine del primo decennio del nuovo millennio l’aumento di truppe delle forze americane e dell’Alleanza atlantica è diventato sempre più esteso.

strip_occhi_articolo_talebani

Nel maggio del 2011 il numero dei soldati americani è arrivato all’apice superando il tetto dei 100mila uomini. Nello stesso momento il 2 maggio è arrivato anche il successo più ambito: la morte di Osama Bin Laden. Nonostante l’insorgenza non fosse ancora del tutto sconfitta, nel giugno dello stesso anno Obama ha poi annunciato per la prima volta di voler ridurre le truppe.

Un’operazione portata avanti con lentezza almeno fino al 2013 quando è avvenuto il passaggio formale delle consegne al governo di Kabul. Contestualmente l’anno dopo la Nato ha chiuso l’operazione Isaf sostituendola con una molto più piccola e limitata, la Resolute Support. Il 24 maggio del 2014 il presidente Obama ha confermato la fine delle operazioni militari in Afghanistan portando il contingente a soli 9.800 uomini. Ma è proprio da questo passaggio che le cose hanno smesso di funzionare. Gli americani hanno ripiegato verso i centri urbani lasciando le aree più remote alle forze afghane. Una mossa avventata dato che molte di quelle basi sono poi cadute in mano all’insorgenza nei mesi successivi.

situazione in afghanistan

L’escalation del biennio 2017-2018

Nei successivi quattro anni lo scenario nel Paese è cambiato ancora. L’insorgenza talebana è tornata a farsi prepotente e sulla scena si è affacciato un nuovo attore: lo Stato islamico. Una recrudescenza che si è fatta sempre più evidente tra il 2017 e 2018. Un rapporto del parlamento britannico ha messo nero su bianco che nel 2017 ci sono stati ben 10 mila vittime (con quasi 3.500 morti) colpite dall’insorgenza, in particolare talebani e Isis. Secondo l’International Crisis group, l’inverno 2017/2018 ha mostrato una violenza inusuale. Mai, ha scritto il think tank, dal 2001 nella stagione più fredda si è vista una simile intensità nei combattimenti. Lo scenario è ulteriormente peggiorato nel corso del 2018. Nel dicembre di quest’anno il Congressional Research Service (Crs), il centro ricerche del Congresso americano, ha diffuso un report in cui chiarisce che l’insorgenza non solo è in grado di mantenere il controllo di alcune aree del Paese, ma anche è stata capace di aumentare la sua influenza e lanciare attacchi di alto profilo. “I talebani”, si legge nel documento, “hanno ottenuto guadagni significativi al sud, dove sono ben radicati, ma hanno mostrato una certa forza fuori dalle basi dove normalmente operano”. Due casi su tutti hanno mostrato cosa vuol dire questa nuova avanzata: gli attacchi violenti a Farah e a Ghazni tra maggio e agosto.

La nuova avanzata talebana

Per capire che dopo il 2014 le cose non sono migliorate basta guardare i numeri. Nel rapporto pubblicato ad ottobre dal Sigar, l’organismo creato dal governo americano per monitorare la ricostruzione dell’Afghanistan, si legge che la quota dei distretti sotto il controllo del governo è scesa al 55,5%, si tratta di un netto calo rispetto alle rilevazioni precedenti, il più basso da quando sono iniziate la valutazioni nel 2015. Il 12% è invece saldamente nelle mani degli insorti e il 32% restante è contrastato.

I talebani, ha scritto ancora il Crs, hanno mostrato una certa capacità offensiva sia sul piano terroristico, che su quello tattico. Al punto che la stessa amministrazione Trump a luglio esortava le forze afghane ad abbandonare le aree rurali più sperdute per concentrare gli sforzi nei settori centrali più fragili, in particolare Kabul e altri centri urbani. Una strategia non nuova, anzi iniziata in parte già nel 2009 dopo che per almeno tre anni gli Usa avevano disseminato il territorio di piccole basi per essere capillari. Questa sorta di presa di coscienza di fatto mostra uno sbilanciamento territoriale quasi insanabile e una debolezza del governo di Kabul che rende impossibile la creazione di un’autorità solida.

La minaccia terroristica

L’aspetto forse più paradossale della nuova escalation afghana riguarda soprattutto il terrorismo. Se pensiamo che le motivazioni politiche dietro l’inizio del conflitto erano legate alla lotta alla minaccia jihadista di al-Qaeda, oggi il Paese sta diventando il rifugio di una nuova generazione di combattenti. Questo scenario fatto di violenza da una parte e debolezza dall’altra viene definitivamente sconvolto dalla svolta dell’amministrazione Trump. Una scelta che plasmerà il destino del Paese e l’intero scacchiere regionale.

 Si chiude così la prima parte di questo approfondimento sul futuro dell’Afghanistan. Nella seconda che uscirà tra due settimane, sposteremo lo sguardo sull’ultimo anno, sul ritorno del terrore e dell’impatto della scelta di Trump sulle forze armate afgane, facendo anche un bilancio di questi 17 anni di guerra: quanto hanno speso gli Usa, quali sono stati gli effetti e quale sarà il futuro dell’Afghanistan anche alla luce dei colloqui con i talebani. 

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.