Le proteste di piazza da mesi scuotono l’Iran, il governo degli Ayatollah si è trovato pressato da più direttrici alla luce delle richieste della piazza di un allentamento del controllo sociale e nella Repubblica Islamica è decisamente cambiata la traiettoria dell’architettura di potere.

L’Iran sotto assedio interno e esterno

Mentre la nazione vive, di fatto, uno stato d’assedio sul piano politico interno ed internazionale, mentre le sanzioni tornano a mordere ferocemente l’economia nazionale e non si trova soluzione alla crisi aperta da Donald Trump disconoscendo l’accordo sul nucleare nel 2019 anche gli apparati di Teheran si riorganizzano.

A quasi due anni dall’alternanza al potere presidenziale tra Hassan Rouhani e Ebrahim Raisi possiamo notare una riduzione del peso decisionale dell’autorità presidenziale di fronte al condizionamento della Guida Suprema, Ali Khamenei, e soprattutto delle Guardie della Rivoluzione (Irgc, i Pasdaran). Che guidano assieme al giro di vite sulle proteste aperte dalla morte di Masha Amini ad opera della polizia anche un trinceramento intransigente del potere nazionale.

La “militarizzazione” della figura della Guida Suprema

La filosofia politica dominante nel pensiero dell’anziano 83enne Ali Khamenei è stata plasmata negli anni a partire dal principio del primo Ayatollah dell’Iran post-rivoluzionario, Ruhollah Khomeini, il cosiddetto velāyat-e faqih. Tale principio prescrive il “potere del giurisperito” nella legge islamica, dunque l’autorità come conseguenza della padronanza delle leggi profonde dei codici islamici e della loro interpretazione secondo i dettami dell’Islam duodecimano dominante in Iran. Ideologia, questa, che nel 1979 fu la molla per il crollo del regime Reza Pahlavi perché capace di dare organicità e, apparentemente, distacco dall’arbitrio.

Ma nel corso degli anni la visione politica degli Ayatollah, Khomeini prima e Khamenei poi, si è “secolarizzata” e ha preso il via un controllo sostanziale della Guida Suprema sugli apparati militari e di sicurezza. Dalla potestas all’imperium, insomma.

Una visione, questa, “modellata e rafforzata da tre notevoli crolli autoritari”, ricorda il New York Times: “la caduta della monarchia iraniana nel 1979, la dissoluzione dell’Unione Sovietica nel 1991 e le rivolte arabe del 2011. La sua conclusione da ciascuno di questi eventi è stata quella di non scendere mai a compromessi sotto pressione e di non farlo mai sui principi. Ogni volta che Khamenei si è trovato di fronte a un bivio tra riforma e repressione, ha sempre raddoppiato la repressione”.

Così è stato nel 2009, durante le proteste contro Mahmoud Ahmainejad; così si è replicato durante la crisi economica del 2019. E così è a cavallo tra 2022 e 2023. Per il Nyt “a rigidità dei sostenitori della linea dura iraniana è guidata non solo da convinzioni ideologiche, ma anche da una profonda comprensione dell’interazione tra governanti e governati. Come ha detto Alexis de Tocqueville, del resto il momento più pericoloso per un cattivo governo è quello in cui cerca di riparare i suoi modi”.

Il ruolo dei Pasdaran

E per un governo che da tempo si è arroccato su una posizione oltranzista verso le rivendicazioni della piazza e in cui le forze di polizia e gli apparati di sicurezza sono vicini ai livelli di arbitrio della Savak, la polizia segreta dello Scià, è difficile tornare indietro. Notevole, in quest’ottica, la mobilitazione dei Pasdaran. Il moto del 2022-2023, lo ha ricordato Foreign Policy, è tutto fuorché rivoluzionario o capace di ribaltare la Repubblica Islamica. Ma orfani di Qasem Soleimani, pressati nella loro proiezione oltreconfine in Siria e Libano dalla “guerra-ombra” di Israele, frenati nei loro affari economici dal ritorno delle sanzioni i Pasdaran hanno bisogno di legittimarsi come forza di potere. E il legame diretto con l’Ayatollah è valorizzato con la partecipazione entusiasta dell’Irgc alla reazione in cui sono morte 400 persone per mano delle forze di sicurezza da settembre a oggi.

"La presa di potere militare dei guardiani della rivoluzione", nota l'analista Paolo Raffone su Limes, fa sì che l’Iran potrebbe in futuro "restare Repubblica Islamica”, ma "di fatto diventerebbe una dittatura militare". L'alto ufficiale Hamid Abazari ha di recente, come ricorda il Jerusalem Post, invitato in tal senso il comandante dell'Irgc, generale Hossein Salami, a fare piazza pulita dai ranghi degli ufficiali non fedeli alla linea di Khamenei. Alla cui successione molti alti papaveri dei Pasdaran iniziano a pensare. Sperando che la transizione, dopo la morte della Guida Suprema, coincida con una "trincerocrazia" che premi i veterani di Siria, Yemen, Libano e Iraq con una conferma delle posizioni di vertice.

La presidenza, un potere in declino

Più a ruota, ma non decisivo, il presidente Raisi. Considerato un "conservatore" nella semplificatoria retorica occidentale sul potere iraniano, Raisi si è trovato sul fronte interno schiacciato sulle posizioni della Guida Suprema di fronte alle proteste. E ne è uscito sminuito, tanto che ora i potenti clan Khomeini e Rafsanajani sono pronti a incunearsi tra il capo formale dello Stato e la Guida Suprema per condizionare il processo di successione a Khamenei a svantaggio di Raisi. Il quale insegue spazi di autonomia laddove ha più discrezione operativa: e la politica estera è uno di questi settori. Di fatto, nelle cuspidi del potere iraniano, la Guida Suprema sembra nell'ultimo biennio aver assunto potestà assoluta sulle vicende interne, mentre maggior discrezione è lasciata al capo dello Stato in materia di esteri.

In quest'ottica, chiaramente, la posizione degli oltranzisti anti-occidentali prende piede a scapito del partito della diplomazia targato Rouhani e che oggi è messo ai margini. La visione millenarista, reazionaria e "dura e pura" degli oltranzisti sul fronte interno si riflette in una politica estera muscolare, fatta di confronti a viso aperto con i rivali regionali.

La nascita di un governo simmetrico a quello iraniano in Israele, con gli ultranazionalisti alleati di Benjamin Netanyahu, e la cordata di Stati con esecutivi guidati da orientamenti anti-iraniani in Occidente può aprire allo sdoganamento del braccio di ferro. Regno Unito, Italia e Polonia hanno preso posizione in forma molto simile a quella americana sulle prospettive future del regime. E in un circolo vizioso notevole, il ritorno delle proteste ha sdoganato la mano libera concessa dagli Ayatollah ai boia di Stato. L'impiccagione, senza regolare processo, di Ali Reza Akbari, ex viceministro della Difesa accusato di essere una spia di Israele, in scia alle proteste segnala la saldatura tra paranoie del regime per l'assedio internazionale e giro di vite interno. Il vero punto di caduta per l'arroccamento di un potere in cui gli equilibri tra "turbante" (potere religioso), "spada" (potere militare) e "corona" (autorità formale politica) stanno vedendo una saldatura tra i primi due blocchi che inaugura la seconda fase della Repubblica Islamica. Oramai Stato-caserma in guerra contro la sua stessa società.

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