Prosegue la crisi degli ostaggi in Armenia, iniziata domenica mattina all’alba con l’assalto a una stazione di polizia della capitale Yerevan da parte di un gruppo radicale di opposizione. Oltre alla crisi – giunta a uno stallo nonostante la lunga negoziazione in corso – ore si sono aggiunte proteste popolari contro il governo. Ieri e oggi sono scese in strada a Yerevan centinaia di persone, e ci sono stati arresti, fermi di polizia, e scontri con le forze dell’ordine. Restano nelle mani degli insorti alcuni ostaggi, e un poliziotto è morto domenica negli scontri. La tensione è ancora alta. Per capire quanto avviene a Yerevan in queste ore, abbiamo intervistato Richard Giragosian, direttore del Regional Studies Center (RSC), uno think tank armeno, nonché opinionista di al Jazeera. Giragosian, la crisi degli ostaggi in Armenia è entrata nella sua terza giornata. Chi sono gli uomini che hanno assaltato la stazione di polizia a Yerevan, e quali sono le loro motivazioni ideologiche e i loro obiettivi? Chiaramente, questo è un atto di totale disperazione ma, cosa ancora più importante, riflette un grave errore da parte degli insorti: credere che il loro sequestro di una stazione di polizia avrebbe dato il via a una insurrezione o a una rivolta su larga scala da parte della popolazione armena. Questi uomini sono membri di un’organizzazione radicale d’opposizione politica, piccola e marginale, conosciuta per la sua linea politica molto dura riguardo al conflitto del Nagorno-Karabakh. Le loro richieste sono irrealistiche. Chiedono l’immediato rilascio di tutti i i “prigionieri politici”, compreso il loro leader in prigione, e le dimissioni del presidente in carica Serzh Sarkisian. Eppure questa crisi non è così sorprendente, se analizzata sullo sfondo di una divisione profonda e di una polarizzazione pronunciata della politica armena. Mentre ciò non giustifica in alcun modo gli atti criminali di questi uomini, questo scenario serve semmai a enfatizzare la loro disperazione. Inoltre, anche se l’assalto alla stazione di polizia è di per sé un atto criminale, ci sono innegabili implicazioni politiche. L’uso ormai consolidato ed abusato della custodia cautelare e le discutibili mosse delle autorità armene contro il leader del gruppo di opposizione tendono a minare la posizione del governo. E una palpabile “paranoia politica” all’interno classe dirigente del Paese ha solo favorito una serie pericolosa di reazioni eccessive da parte della polizia, che ha preso di mira molti attivisti civili e oppositori politici che erano ben lungi da essere una reale minaccia. D’altra parte le azioni criminali di questi uomini hanno solo rafforzato la posizione del governo armeno, contribuendo a rafforzare e persino giustificare la sua repressione su questo gruppo marginale. Questioni politiche assai radicate come la corruzione diffusa, le elezioni truccate e una percezione generale di un’ “arroganza del potere”, definita da una classe politica impegnata a comandare, ma non a governare il Paese, sono sintomatiche del contesto politico che fa da sfondo a questa crisi. E, in uno scenario più ampio, questa crisi ha le sue radici nei tragici eventi del marzo 2008, quando l’ex presidente, Robert Kocharian, schierò le forze di polizia e di sicurezza per mettere fine alle manifestazioni post-elettorali utilizzando un livello inaccettabile di violenza. Questo atroce errore, che ha lasciato dieci morti e molti feriti, ha determinato e definito la linea di governo del suo successore, il presidente Sarkisian, che ha solo esacerbato quest’eredità omettendo di svolgere in modo adeguato indagini o perseguire i responsabili di quel bagno di sangue senza precedenti in Armenia. Il gruppo ha chiesto alle persone di mobilitarsi contro le autorità e di fatto – dopo più di 24 ore – alcune migliaia di persone sono scese in piazza. Pensa che questo sia l’inizio di un nuovo movimento di protesta in Armenia o è solo uno segno generico di malcontento nei confronti del governo? La risposta della gente è assai meno radicata in un sostegno diretto o un’appartenenza al gruppo marginale coinvolto nella crisi degli ostaggi, e deriva assai più da un livello generale di indignazione generato da un profondo senso di frustrazione per la corruzione radicata, i brogli elettorali, e da una percezione generale dell’ “arroganza del potere” del governo. Mentre molti giornalisti negli ultimi giorni hanno iniziato a parlare di un possibile colpo di stato in Armenia, lei hai dichiarato che a suo avviso il rischio è remoto. Può dirci perché? Nonostante l’evidente fine dell’apatia, la mancanza di sostegno popolare per il governo e i fattori economici e politici di malcontento, l’attuale situazione in Armenia non è un “momento rivoluzionario.” La posizioni marginali degli insorti, e il fatto che i partiti politici tradizionali di opposizione del paese rimangano ampiamente screditati e impopolari, rende il rischio di una ribellione improvvisa o di una rivolta nazionale improbabile. Inoltre, l’Armenia ha conseguito un notevole grado di stabilità nei rapporti fra civili e militari, con nessun caso all’attivo di coinvolgimento dell’esercito nella politica. Con l’eccezione della violenta crisi post-elettorale del paese del marzo 2008, ma quell’incidente fu più che altro un’aberrazione. Questa assenza di un qualsiasi ruolo militare nella politica armena diminuisce notevolmente il rischio di un colpo di stato. Anche le dimissioni forzate del primo presidente del paese, Levon Ter-Petrosian, erano una crisi istituzionale che il paese ha superato con successo, piuttosto che un scintilla per una guerra civile o una divisione interna. Tuttavia, le prospettive per la stabilità del Paese dipendono in gran parte dalla reazione, e anche dagli abusi dello stato armeno che, come già demostrato negli arresti di massa piuttosto arbitrari di attivisti civici ed altri sostenitori dell’opposizione, potrebbe rendere la situazione molto più seria. Negli ultimi anni abbiamo avuto molte ondate di protesta in Armenia. La società sembra sempre più scontenta, ma d’altra parte i partiti di opposizione appaiono sempre divisi e deboli, lasciando al Partito repubblicano l’egemonia nel Paese. Perché avviene questo? C’è una fine evidente dell’apatia, e gli attivisti civili armeni non sono più tolleranti verso i livelli eclatanti di corruzione e verso un governo autoritario. L’attore chiave da osservare, tuttavia, non è solo la gioventù come “agente di cambiamento”, ma anche la nuova opposizione politica emergente, come evidente nel ruolo di mediazione del parlamentare di opposizione Nikol Pashinyan, uno dei leader del partito politico “Contratto civile”, la sola persona accettata da tutte le parti come interlocutore durante questa crisi. Pashinyan è stato in grado di aprire personalmente negoziati con i sequestratori, cercando di convincerli della inutilità delle loro azioni e esortandoli ad arrendersi. Il conflitto del Nagorno-Karabakh, in cui armeni e azeri stanno combattendo a partire dagli anni novanta per il controllo di questa regione, viene spesso menzionato in Armenia negli ultimi giorni per quanto riguarda la crisi degli ostaggi. Come e perché sono legati questi due punti? Mentre il conflitto del Karabakh ha da tempo definito il discorso politico in Armenia, questa crisi è più di natura domestica e ha poco rapporto diretto al conflitto del Karabakh. Eppure è evidente che questa gruppo radicale è ispirato e motivato da un senso di incombente sconfitta in Karabakh, e si oppone a qualsiasi idea di concessione o compromesso sul Karabakh, soprattutto sulla scia della grave offensiva azera nel mese di aprile. L’Armenia è circondata da paesi ostili. Il conflitto del Nagorno-Karabakh continua, e non c’è alcun progresso nel processo di riconciliazione con la Turchia. Anche la Russia e l’Iran sono ora sempre più vicine all’Azerbaijan, lasciando l’Armenia in uno stato preoccupante di isolamento. Considerando questa situazione, molti dicono – in Armenia e all’estero – che è pericoloso mettere in discussione la stabilità del governo. Qual è la sua opinione su questo punto? Dato che l’Armenia è più vulnerabile alle pressioni geopolitiche a causa della sua mancanza di democrazia istituzionale, è proprio la debolezza interna del Paese che necessita, in modo particolare, di un’aperta discussione su stabilità e sicurezza. E l’imperativo ora è quello di concentrarsi sull’accelerazione delle riforme e sulla via di democratizzazione. Ma c’è speranza. Come confermano l’attuale crisi in Armenia e i recenti combattimenti nel mese di aprile, la corruzione tollerata o coltivata dal governo e la mancanza di democrazia sono oggi le più gravi minacce alla sicurezza nazionale armena.

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