“L’élite occidentale, in particolare quella francese, è uno stupratore politico, economico e psicologico plurisecolare”. Questa è solo una delle tante, colorite invettive lanciate contro l’occidente dal panafricanista Kemi Seba, al secolo Stellio Gilles Robert Capo Chichi, nella sua lectio magistralis presso l’Istituto Statale di Mosca per le Relazioni Internazionali (Mgimo). È il 24 Ottobre e presso quello che Kissinger definì come “l’Harvard di Mosca” si tiene il forum intitolato “Russia-Africa: what’s next?”. Invitato di spicco è proprio Seba, un attivista franco-beninese legato all’ecosistema informazionale russo.

Il suo intervento verte sul ruolo del panafricanismo nella resistenza multipolare all’oligarchia occidentale ed è principalmente rivolto ad una platea di giovani universitari russi. Al di là della propaganda, delle espressioni colorite e dei toni profetici, il discorso di Seba è interessante poiché evidenzia il tentativo di costruzione di una narrazione alternativa a quella dell’occidente, volta ad approfondire il legame fra Russia ed Africa. Se il rinnovato interesse russo per l’Africa si manifesta già nel 2019 durante il forum di Sochi, l’invasione dell’Ucraina sembra aver accelerato questo processo.

Il Cremlino mirava infatti ad una guerra lampo in Ucraina, eppure a più di 160 giorni dall’inizio delle ostilità il conflitto continua e non si intravede alcuna soluzione negoziale. Il perdurare della guerra porta quindi inevitabilmente a una polarizzazione delle posizioni della comunità internazionale, in una dinamica che potrebbe ricordare quella dei blocchi della Guerra Fredda. In quest’ottica per Mosca è fondamentale tessere delle relazioni con Paesi al di fuori dell’occidente, al fine di non rimanere completamente isolata. L’intervento di Kemi Seba permette quindi di comprendere meglio la strategia di Mosca per conquistare cuori e menti delle popolazioni africane e dei loro governanti.

Una narrazione alternativa

Come ogni discorso revisionista, quello di Seba (e quindi per estensione quello della propaganda russa), si costruisce in opposizione all’Occidente. La prima distinzione che emerge nell’oratoria di Seba è quindi quella fra l’“Occidente collettivo” e il “non occidente”. Questa dicotomia, che nelle parole del panafricanista assume anche una sfumatura culturale, ricalca il tema dell’unipolarismo occidentale a guida americana in contrapposizione al multipolarismo inclusivo di cui la Russia è fervente sostenitrice. Cosa unisce quindi Africa e Russia? Non solo il non essere parte dell’Occidente, ma anche l’aver subito “le azioni dell’élite occidentale che hanno causato il crollo dell’Urss” e che impongono ai popoli africani “una costante instabilità”.

Sono quindi “la violenza, l’arroganza, l’insolenza e l’indecenza dall’élite (occidentale)” ad unire russi e africani. La guerra in Ucraina non è un’invasione ma un atto di difesa della sovranità russa a fronte dell’espansionismo della Nato. La visione di Zelensky, marionetta dell’occidente, ha numerosi epigoni in Africa, da Macky Sall (Presidente dell’Unione Africana) a Mahmat Déby (Presidente del Ciad e alleato chiave della Francia nello sforzo di stabilizzazione del Sahel). Per Seba il mondo non è quello descritto dalla BBC, dalla CNN o da France24: è un mondo dove l’occidente “globalista” ha dichiarato guerra al “resto del mondo”.

Nella visone del presidente dell’ong Urgences Panafricanistes esistono due blocchi, il primo è formato dai popoli tradizionali che difendono la propria identità, le proprie tradizione e visioni del mondo. L’altro è quello dei globalisti, che si ammantano del termine progresso per promuovere una visione neoliberale della società e dell’economia. Questo secondo blocco si oppone alla tradizione, rifiuta il metafisico e l’immateriale (non crede cioè a Dio) e “opera per diffondere il materialismo, la decadenza, la degenerazione, la distruzione dei valori del popolo e della famiglia”. Il blocco “globalista” tenterebbe quindi di imporre aggressivamente la propria visione della società, attraverso il concetto di democrazia che “non è che un modello di gestione del potere occidentale”.

Paesi quali la Cina, la Turchia, l’Iran e – naturalmente – la Russia assurgono allora a difensori del non-occidente, resistendo alle rivoluzioni dei colori orchestrate dall’occidente per destabilizzare il resto del mondo. Il discorso di Seba, che ricorda almeno in parte la propaganda sovietica negli anni di maggior tensione durante la Guerra Fredda, raggiunge un tale livello di mistificazione della realtà che potrebbe quasi far sorridere un lettore “occidentale”. Eppure, toccando dei punti dolenti della memoria storica della popolazioni russe (come il crollo del regime sovietico) e africane (il colonialismo, l’imposizione dall’alto di un modello di democrazia liberale), riscuote un grande interesse, dimostrato per esempio dal numero di seguaci di Seba sui suoi social.

Dalla teoria alla pratica

Le parole di Seba e di altri attivisti pro-russi, sebbene (o proprio perché) intrise di propaganda, hanno in realtà un impatto significativo sulla realtà africana, in particolare nella fascia del Sahel. Opinioni come quelle di Stellio Capo Chichi costituiscono infatti il brusio di sottofondo che alimenta il sentimento anti-francese in Mali, Burkina, Ciad, Repubblica Centrafricana, Togo, Benin ed altri paesi africani. Non sono certo i discorsi di Kemi Seba o Nathalie Yamb ad aver causato due colpi di stato in meno di un anno in Burkina Faso, o ad aver determinato la scelta del colonnello Assimi Goita, Presidente della giunta militare al potere in Mali, di rivolgersi a Mosca rompendo pressoché ogni contatto con Parigi.

Discorsi come quello qui riportato hanno però contributo ad infiammare le folle e a predisporre la popolazione all’arrivo dei famigerati contractors di Wagner. Non solo: il sentimento anti-francese alimentato dalla propaganda russa a novembre dell’anno scorso ha anche riunito migliaia di manifestanti nelle strade di Kaya, capoluogo di una provincia settentrionale del Burkina Faso. L’obiettivo della folla era quello di bloccare importanti convogli logistici dell’esercito francese partiti dalla Costa d’Avorio in direzione del Niger, perché accusati di voler ri-colonizzare il Paese senza per altro aver diminuito l’instabilità della regione.

L’episodio di Kaya conferma anche il crescente peso dell’influenza Russa in Africa. Se con le sanzioni varante dall’occidente l’agenzia di stampa russa Sputnik ha perso milioni di lettori in Europa, Sputnik France è stato recentemente rinominato Sputnik Afrique, sottolineando la crescente influenza dell’informazione controllata dal Cremlino in Africa. Non è quindi un caso che il 9 novembre Emmanuel Macron, in un discorso pronunciato dall’hangar della portaelicotteri Dixmude, abbia annunciato la fine dell’operazione Barkhane contestualmente alla presentazione della Revue Nationale Strategique (Rns).

L’Rns è un documento programmatico che ha per obiettivo quello di guidare le politiche di difesa e i conseguenti investimenti fino al 2030. L’elemento di maggior novità in questo documento programmatico è l’elevazione del concetto di “influenza” al ruolo di “funzione strategica”. L’influenza consiste proprio nella capacità di vincere i cuori e le menti, di influenzare le popolazioni veicolando determinati sentimenti. Quello anti-francese è sicuramente una delle ragioni che hanno portato alla fine di Barkhane, dato il significativo peggioramento delle condizioni operative. La sfida per la Francia e per l’Occidente collettivo è allora quella di passare da una postura reattiva ad una proattiva. Come si possano però condurre delle campagne di influenza pur rispettando i valori fondanti delle democrazia occidentali rimane per ora una grande incognita.

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