A partire dall’insediamento alla Casa Bianca di Donald J. Trump, la nuova amministrazione di Washington ha mostrato un forte interesse per le questioni latinoamericane e portato avanti politiche che denotano quanto il governo repubblicano sia deciso ad applicare il concetto base della campagna elettorale di Trump, America First!, nel suo più vicino scenario di competenza. America First! non evoca solo la disfida commerciale col Messico, le accuse incrociate sulla sicurezza di confine e l’immigrazione: essa si declina, a Sud del Rio Bravo, attraverso la manifestazione del rilancio dell’interventismo di Washington in una regione che gli Stati Uniti hanno sempre considerato il proprio “cortile di casa” a partire dall’ufficializzazione della dottrina Monroe nel 1823.

Il principale ispiratore della “svolta latinoamericana” dell’amministrazione Trump è stato un ex avversario alla nomination repubblicana del Tycoon newyorkese, il Senatore della Florida Marco Rubio, definito da Alex Daugherty del Miami Herald “l’orecchio del Presidente per l’America Latina” e abile a capitalizzare sotto forma di influenza concreta il peso derivante dalla sua vicinanza alla comunità cubana di Miami, bacino elettorale decisivo per il trionfo di Trump alle ultime elezioni.





La crescente ingerenza degli Stati Uniti nelle questioni latinoamericane si sta concretizzando sotto forma di due strategie d’azione complementari: da un lato, l’obiettivo è mettere sotto pressione gli Stati considerati scarsamente amichevoli nei confronti di Washington, Cuba e Venezuela in primis, al fine di accentuare il loro isolamento internazionale; dall’altro, rafforzare la leadership di Washington in seno all’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) attraverso la convergenza geopolitica con i governi maggiormente affini, tra cui si segnalano tre importanti Paesi del Sud America, per la precisione Brasile, Argentina e Colombia.

Tale convergenza non è solo dettata dalla vicinanza tra le posizioni politiche di contestati leader come i Presidenti di Brasilia e Buenos Aires, Michel Temer e Mauricio Macri, fautori di riforme mercantiliste e neo-liberiste, con le istanze di Washington ma anche incentivata dalla necessità percepita dagli Stati Uniti di evitare il compattamento di un blocco latinoamericano omogeneamente ostile alla loro presenza negli scenari regionali. Tale blocco, che oggi vede il suo zoccolo duro nell’ALBA nata sotto l’impulso di Hugo Chavez e Fidel Castro, ha a lungo compreso gli stessi Brasile e Argentina, i cui governi del “socialismo del XXI secolo” sono stati estromessi negli ultimi anni a vantaggio di forze politiche liberali che godono di un consenso in continuo deterioramento a causa dell’inefficacia delle loro riforme. L’annuncio delle grandi esercitazioni congiunte che, nel prossimo mese di novembre, porteranno le forze armate statunitensi in Amazzonia ha rappresentato un deciso segno della volontà statunitense. 

Le esercitazioni interesseranno un’area decisamente vicina al Venezuela chavista, squassato dalla duratura crisi economica e da una serie di violente proteste di piazza dietro cui il governo di Caracas dichiara di vedere l’operato di Washington: l’attenzione tributata alla Repubblica Bolivariana da parte dell’attuale amministrazione è notevole, ed è indubbio che Trump e i suoi parteggino apertamente per il regime change, essendo dichiaratamente ostili al Presidente Nicolas Maduro e schierati al fianco dell’opposizione tanto sul piano diplomatico quanto in seno all’OSA. Il ricevimento alla Casa Bianca di Lilian Tintori, moglie del leader di Voluntad Popular Leopoldo Lopez, alla presenza del Senatore Rubio, ha segnato in tal senso la scelta di Trump di inasprire la linea antichavista delle precedenti amministrazioni: pur di smuovere il terreno sotto i piedi di Maduro, infatti, il governo di Washington è arrivato a perorare la liberazione di Lopez, condannato a 13 anni e 9 mesi di prigione nel settembre 2015 per il suo ruolo giocato nell’incentivazione delle violentissime proteste di piazza che, nell’anno precedente, avevano assunto la forma di una vera e propria manovra eversiva contro Maduro e avevano causato la morte di oltre 40 persone. Sul Venezuela, al tempo stesso, aleggia il risentimento personale del Segretario di Stato Rex Tillerson, che da CEO di ExxonMobil vide numerose operazioni nel Paese frenate dalla volontà del Presidente Hugo Chavez di riportare sotto il controllo pubblico l’industria petrolifera nazionale.

Altrettanto complessa è la questione cubana: con un recente ordine esecutivo, Trump ha avviato lo smantellamento dell’accordo siglato nel 2014 da Barack Obama e Raul Castro e avviato un processo che porterà a nuove restrizioni nei permessi di viaggio verso l’Isla Bonita e nelle possibilità, per le imprese statunitensi, di portare avanti rapporti economici con le società facenti capo alle organizzazioni militari del governo rivoluzionario. Restrizioni mirate innanzitutto ad accontentare il serbatoio elettorale cubano-americano che, come detto, ha favorito la conquista trumpiana della Florida e ora si vede ricambiato con prese di posizione anticastriste che, sul lungo periodo, difficilmente porteranno acqua al mulino delle prospettive geopolitiche statunitensi. La storia ha infatti insegnato come la chiusura ermetica a Cuba non abbia aiutato, nel corso degli ultimi decenni, gli Stati Uniti a piegare il governo dei Castro, nonostante le dure sofferenze imposte dall’assedio politico-economico. La reiterazione di un regime tanto rigido appare, allo stato attuale delle cose, difficile da giustificare prescindendo dai legami tra l’amministrazione e un preciso gruppo di pressione politico-sociale. Contraddizioni e debolezze di una politica latinoamericana che, seppur congegnata su capisaldi riconoscibili, risulta applicata in maniera molto approssimativa: il Trump in versione Monroe, nei suoi primi mesi di governo, si è approcciato in modo decisamente confusionario alla complessa situazione geopolitica della regione oltre il Rio Bravo.

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