L’Impero costa. Implica sovranità politica, potere di scelta di ultima istanza, potestà sulle dinamiche che regolano la convivenza tra società e popoli nell’area direttamente controllata o influenzata dalla potenza egemone. Imperium è comando, ma anche costruzione di un ordinamento. L’egemonia statunitense, per decenni, non è sfuggita a questa logica. Analisti di spessore come John Mearsheimer in America e il gruppo di Limes, tra cui spicca Dario Fabbri, in Italia hanno più volte posto l’accento sull’anti-economicismo come principio guida dell’azione strategica statunitense. Che garantisce con l’egemonia militare e, in particolare, navale la globalizzazione fondata sul libero commercio mantenendo aperti varchi, colli di bottiglia e rotte strategiche pur essendo gli Stati Uniti un Paese in forte deficit commerciale.

Nella lettura della crisi delle relazioni Cina-Usa le visioni predominanti sono due: una di matrice economica, che vede nel sorpasso di Pechino come superpotenza economica e commerciale una manifestazione del declino relativo degli Stati Uniti e la fine dell’egemonia a stelle e strisce, e una marcatamente geopolitica secondo cui, anche in un contesto di crisi dell’ordine liberale, l‘ascesa cinese avviene alle regole statunitensi. Ovvero sfruttando le forze del commercio senza mettere in discussione la primazia americana nei terreni decisivi: dominio militare, ramificazione delle alleanze, capacità d’intervento globale. Il “tridente di Nettuno”, simbolica rappresentazione del dominio sui mari, resta saldamente in mano al Pentagono.

Quel che accade negli ultimi anni è singolare. A capo della revisione del processo di globalizzazione si pone la potenza guida e garante. Lacerata internamente dalle problematiche economiche, sociali e politiche dovute all’esposizione di parte del Paese alle buriane del mercato mondiale. Che ha il suo tradizionale nazionalismo cavalcato ora dal presidente Trump in senso “revisionista” dei capisaldi dell’egemonia statunitense: sfruttamento della globalizzazione per finalità geopolitiche, retorica democratica, difesa del libero commercio.

Come scrive Vittorio Emanuele Parsi in Titanic – Il naufragio dell’ordine liberale: “La contestazione da parte dell’amministrazione americana di Donald Trump della vitalità, attualità e rilevanza di istituzioni centrali per la difesa della dimensione politica liberale dell’ordine mondiale è in realtà la conseguenza di una strategia di attacco alla globalizzazione che, invece di provare a rimediarne i guasti, si limita a cercare di scaricare i costi verso l’esterno”. Il voto degli operai dell’America profonda deindustrializzata manda alla Casa Bianca l’amministrazione del più grande, generalizzato e generoso sconto fiscale ai “campioni nazionali” della finanza americana. I miliardari liberal della Silicon Valley si accodano per le commesse dorate del Pentagono. America First è il tentativo di mediazione aggressiva tra il ruolo americano di garante della globalizzazione e la volontà di trarre da essa dei frutti che siano, tra le altre cose, anche economici.

Bene ha scritto Carlo Pelanda su Italia Oggi: “La globalizzazione distruttrice di confini è stata sostenuta dal deficit commerciale statunitense entro una strategia di dominio mondiale basata sul commercio internazionale asimmetrico […] Ciò ha reso vantaggioso per le nazioni partecipare alla globalizzazione perché hanno potuto, allo stesso tempo, esportare e proteggere. Ma ha portato ad un impatto concorrenziale impoverente sulla società statunitense che ha fornito consenso all’offerta americanista e protezionista di Trump“.

Dal multilateralismo al bilateralismo: l’America trumpiana è sì favorevole al commercio, ma anche paladina del rifiuto di accordi in grado di annaquare la capacità di Washington di far pesare la sua supremazia. In altre parole, come coniugare mercato internazionale e confini forti. Washington ha la capacità di mettere in discussione l’ordine attuale riducendo l’esposizione come garante, ma la finalità “imperiale” difficilmente potrà esser messa in discussione. Stato profondo, apparati politici, grandi multinazionali premono per il mantenimento dell’egemonia a stelle e strisce. Trump, in questi tre anni, lo ha sostanzialmente capito. La globalizzazione è uno stato di cose che non si può negare, ma che gli Usa intendono ora governare in maniera più conforme alle priorità, anche economiche, interne. La grande sfida delle prossime amministrazioni sarà essere in grado di plasmare un nuovo ordine in un contesto sempre più multipolare dove il ruolo degli Usa passerà da potenza egemone a sostanziale primum inter pares.





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