A partire dalle opposte sponde del Golfo Persico, da anni Iran e Arabia Saudita si fronteggiano, danno vita a un confronto muscolare per la leadership in Medio Oriente, a un conflitto indiretto nel quale dinamiche geopolitiche, questioni economiche connesse ai mercati delle materie prime e istanze religiose legate alla difficile relazione tra la Repubblica Islamica sciita e il regno wahabita si sommano, si confondono, si rafforzano reciprocamente.Dall’intervento saudita in Bahrain nel 2011, decisivo per la repressione delle proteste della maggioranza sciita contro la leadership incontrastata della famiglia Al Khalifa, alle attuali guerre in Siria e Yemen, la guerra per procura tra Teheran e Riyadh è passata più volte sul terreno militare e, anzi, ha contribuito a plasmare numerosi scenari internazionali delicatissimi; il retroterra politico-economico della rivalità, in ogni caso, è altrettanto degno di menzione, in quanto la sua comprensione consente di conoscere le cause profonde della rivalità e le sue possibili implicazioni future.La sfida tra Iran e Arabia Saudita è, innanzitutto, una questione di egemonia. Egemonia intesa chiaramente in senso relativo ma leggibile nell’ottica della ricerca della massima posizione di forza nello scenario regionale e del massimo potere contrattuale nei confronti delle grandi potenze interessate allo scenario mediorientale. In questa ottica si possono leggere tanto il gioco ambiguo condotto dall’Arabia Saudita nei confronti dei gruppi islamisti militanti e dei suoi alleati occidentali, rivelatosi sul lungo termine controproducente, quanto la strategia ad ampio raggio dell’Iran, che è passata attraverso la ricerca di una sempre maggiore proiezione nello scenario siriano e l’affinamento dei rapporti diplomatici col confinante Pakistan, storico partner di casa Saud con il quale Teheran ha rinsaldato notevolmente i legami.Sul fronte energetico, lo storico accordo sul taglio della produzione petrolifera siglato al summit dell’OPEC dello scorso 29 settembre sembrava aver posto le basi per un timido accenno di disgelo, presto venuto meno dopo che le accuse incrociate di slealtà tra i due Paesi hanno fatto venire meno l’equilibrio precario su cui era stata stabilita l’intesa. Javier Blaus e Nayla Razzouk hanno riportato su Bloomberg l’opinione dell’economista Amartya Sen, secondo il quale l’adesione dell’Arabia Saudita all’accordo è stata dettata da ragioni esclusivamente tattiche, volte a scongiurare la crisi economica a cui il regno wahabita andrebbe incontro se il regime di bassi prezzi del greggio sui mercati internazionali continuasse a lungo, segnando uno scacco di ampia portata per Riyadh nel “grande gioco del petrolio”.Negli ultimi mesi, l’Arabia Saudita ha alzato notevolmente i toni nello scontro con l’Iran, tanto che alla recente Conferenza sulla Sicurezza di Monaco il Ministro degli Esteri dei Saud, Adel Al Jubeir, ha definito l’Iran come il principale sponsor del terrore globale, echeggiando le dichiarazioni del Presidente statunitense Donald Trump e superando agilmente il ricordo dell’ambiguo “patto col diavolo” a lungo onorato da Riyadh, eloquentemente descritto nell’omonimo saggio di Fulvio Scaglione. Al Jubeir ha rispedito al mittente le offerte di dialogo avanzate dal Presidente iraniano Hassan Rouhani, che secondo Middle East Monitor avrebbe chiesto l’intermediazione del Sultano dell’Oman Qaboos bin Said per avviare consultazioni volte ad appianare le discordie col principale avversario del suo Paese.Un’escalation repentina della tensione tra l’Iran e l’Arabia Saudita, che trova oggigiorno sponda in Israele, sarebbe deleteria per tutto il contesto mediorientale e condizionerebbe direttamente l’esito del prossimo voto presidenziale in Iran, attraverso il quale passa il futuro della politica estera di Teheran e, di converso, della stabilità della regione: dopo la morte di Ali Akbar Rafsanjani e le nuove scintille con gli Stati Uniti Rouhani, che il 7 febbraio ha annunciato ufficialmente la sua ricandidatura per le elezioni del 19 maggio, necessita di capitalizzare al meglio i frutti della strategia iraniana in campo internazionale per assicurarsi una rielezione insidiata dal ritorno in auge dei “falchi” ultraconservatori. Nella giornata del 18 febbraio Hamid Baqai, storico collaboratore dell’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad, ha annunciato la sua candidatura: un ritorno al potere della vecchia guardia conservatrice, per la quale l’Ayatollah Ali Khamenei non nasconde le sue preferenze, segnerebbe un punto di svolta nella rivalità iraniano-saudita. Da qui a maggio, in ogni caso, è impossibile fare previsioni: la liquidità dello scenario e, soprattutto, la vicinanza di Iran e Arabia Saudita a Russia e Stati Uniti rispettivamente ancora la guerra per procura tra Teheran e Riyadh a dinamiche e sviluppi in continuo cambiamento. L’unico elemento certo è la precarietà, la difficile tenuta della situazione mediorientale stretta nella contrapposizione tra due dei suoi più importanti Paesi.

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