La geografia è destino. E il destino degli italiani, al centro del Mediterraneo dapprima che si chiamassero tali e che esistesse l’Italia come stato unitario, non può che essere uno: guerra eterna. Testimoni, più che combattenti, del bellum perpetuum per il controllo del Mediterraneo e della penisola d’oro al suo centro, l’Italia, unica al mondo nel suo essere crocevia fra tre continenti: Europa, Asia e Africa.

Centralità non significa aprioristicamente grandezza, anche se chiaramente verso tale fato potrebbe condurre, e la storia dell’Italia è evidenza lapalissiana di quanto male possa attrarre su di sé colui che da benedizione non sa trarre profitto. Le guerre orrende iniziate da Carlo VIII di Francia. Le guerre turco-veneziane. Il Meridione mai al riparo dalla Barberia. Il trauma del 1797. Quella guerra civile europea che fu il Risorgimento. Tutti pazzi per l’Italia, da sempre, che gli aspiranti padroni del Mediterraneo vorrebbero vedere a pezzi.

Dai tempi della calata di Carlo VIII di Francia è cambiato poco. Perché se è vero che l’Italia non è più frammentata in una polvere di stelle microstatali, lo è altrettanto che, con la fine della Prima repubblica, la percezione che sia involuta di nuovo ad espressione geografica ha innescato una nuova stagione di scontri egemonici. Che vedono l’Italia osservatrice passivamente partecipante di ciò che accade al suo interno e in quello che è il suo estero vicino. Perciò gli occhi del mondo, nell’attesa del voto, sono su di lei.

Corsa all’Italia

Ogni giorno hanno luogo degli eventi, da un lutto ad un accordo commerciale, che confluiscono nel grande flusso delle relazioni internazionali. Ma pochi di essi, in realtà, influiscono. Una differenza sostanziale, quella tra confluenza e influenza, che è fondamentale riconoscere.

Le elezioni parlamentari italiane rientrano nella categoria degli eventi influenti. E non tanto perché le scuole di formazioni nostrane – che non abbiamo – esprimano a cadenza regolare dei statisti e degli strateghi alla Machiavelli – non è così – in grado di lasciare un’incisione sul volto delle geografie del potere, quanto per la posizione dell’Italia. Appendice d’Europa affacciato sull’Africa e proiettato verso l’Asia, dai tempi di Roma antica. Eurafrasia allo stato puro.

Le origini delle ragioni di chi ci osserva sono queste, hanno a che fare cogli inevitabili riverberi per il potere della nostra geografia, e il declino dell’Italia come stato unitario, come società e come civiltà non può che essere uno stimolo per chi corre nella speranza di essere primo al nuovo sacco di Roma.

Gli occhi che ci guardano

Cina, Francia, Germania, Russia e Stati Uniti sono le cinque potenze che, sin dall’era Berlusconi, hanno guardato con attenzione ai processi elettorali italiani, nei quali hanno spesso interferito per ottenere dei risultati a loro favorevoli. Sullo sfondo e in concomitanza con gli sguardi magnetici di due giganti che, per una serie di motivi, non possono ignorare le dinamiche interne all’Italia: Chiesa cattolica e Regno Unito.

Washington e Mosca si infilano nelle urne, quando prepotentemente e quando sottilmente, sin dal 1946, anno del referendum sulla prosecuzione della monarchia e delle prime elezioni generali della neonata repubblica. Ché avere l’Italia dentro o fuori il campo occidentale, più che un goal, è possibilità di vittoria a tavolino di una o dell’altra squadra. Spiegazione breve ma concisa, di cui il recente “dossier a orologeria” proveniente da Washington sui presunti finanziamenti ai partiti politici europei è esemplificazione pratica.

Berlino e Parigi non possono permettersi di voltarsi dall’altra parte, non più, da quando il trono dell’Europa è tornato a loro a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta. Italia che, per l’Eliseo, sempre è stata e sarà una realtà a metà tra la provincia e il competitore, da assoggettare economicamente e contrastare geopoliticamente – come insegnano Algeria, Libia e Tunisia –, col quale è bene seppellire l’ascia di guerra, ogni tanto, nel nome del contenimento della Germania e altre minacce superiori. Germania che, a sua volta, di un’Italia forte, ma non troppo, abbisogna per nutrire le proprie catene del valore sudorientali e sorreggere la moneta unica europea.

Pechino è il dragone che cela dietro la sua caratteriale ed enigmatica imperscrutabilità i propri disegni per Roma, che ritiene (a ragione) il ventre molle dell’Occidente, ingannando quanti scambino il defilamento per disinteresse o assenza. È un corridore il cui passo è svelto e che gareggia lungo piste alternative, dove non vi sono telecamere indiscrete, e del quale ci si accorge quando sale sul podio. Come nel 2019, anno del memorandum di intesa sulla partecipazione dell’Italia alla Belt and Road Initiative.

E poi, infine, vi sono Londra e Papato. La prima è una mamma severa che può permettersi di ignorare l’esito delle urne, anche perché l’interferenza in mondovisione non appartiene allo stile dei diplomatici e degli 007 di Sua Maestà, anche perché la sua rete clandestina di influenza le permette di correggere il suo figliolo ogniqualvolta le tentazioni di grandezza lo fanno prodigo – Mattei, Moro e Regeni docent. E il Papato di buoni rapporti col popolo e con la classe dirigente della penisola d’oro non può fare semplicemente a meno perché, pur avendo la vocazione per l’Urbe, ha sede nell’Orbe.





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