Ripetuti allarmi erano stati lanciati da istituti di ricerca, analisti, think tank e pure da qualche ex alto funzionario governativo. Dopo anni di suggerimenti finiti nel vuoto, o quasi, sono arrivati anche i fatti a dimostrare che, mettendo in campo la sola deterrenza militare, gli Stati Uniti non possono pensare di contenere la Cina. Tanto meno nel suo cortile di casa, a migliaia di chilometri di distanza da Washington e in uno scenario abitato da attori che ragionano perseguendo obiettivi non sempre in linea con quelli della Casa Bianca.

Mano a mano che il commercio è diventato un affare globale, e che sono venuti meno i muri ideologici che separavano Paesi guidati da governi agli antipodi, persino i più acerrimi rivali ideologici di Pechino hanno infatti imparato che sarebbe impossibile, per le loro economie, andare avanti senza tessere relazioni con il governo cinese. È in un contesto del genere che gli Usa si ritrovano, adesso, a costruire un’architettura diplomatica in Asia, coinvolgendo quanti più partner locali possibile.

L’ultimo è il Vietnam. Biden, dopo il G20, ha incontrato la massima autorità vietnamita, Nguyen Phu Trong. I due hanno firmato un accordo che eleva le relazioni bilaterali a partenariato strategico, un passo che rappresenta un ulteriore progresso nel piano statunitense per contrastare l’influenza della Cina. “Questo nuovo status favorirà la prosperità e la sicurezza nella regione, una delle più importanti del mondo”, ha annunciato Biden in una conferenza stampa ad Hanoi dopo l’incontro con Nguyen Phu, che è anche segretario generale del partito comunista del Vietnam. 

Biden ha inquadrato questo rafforzamento delle relazioni con il Vietnam nella rete di alleanze che ha tessuto da quando è arrivato alla Casa Bianca nel gennaio 2021 (come il rilancio dell’alleanza di difesa Quad e la creazione nel 2021 del patto tripartito Aukus, l’acronimo in inglese da Australia, Regno Unito e Stati Uniti). L’accordo mira a rilanciare la produzione di semiconduttori in Vietnam, visto che il Paese si è già affermato come un importante centro manifatturiero regionale e che alcune aziende americane, come Intel, considerano come una destinazione produttiva alternativa alla Cina. 

Sempre da Hanoi, Biden ha lanciato un chiaro messaggio all’indirizzo di Pechino: “Non voglio contenere la Cina”. In una conferenza stampa, il presidente americano ha rivendicato la sua “sincerità” nei rapporti con Pechino, dopo aver incontrato il primo ministro Li Qiang al G20 di Nuova Delhi. “Il presidente Xi sta avendo delle difficoltà economiche, ma io voglio che abbia successo nell’economia”, ha affermato Biden. Interrogato dai giornalisti, l’inquilino della Casa Bianca ha aggiunto di non ritenere che tali difficoltà economiche spingeranno la Cina ad attaccare Taiwan, semmai il contrario. Quanto ad un suo incontro con l’omologo cinese Xi Jinping, assente in India, Biden ha detto di sperare che avvenga, “meglio presto che tardi”. 

Bryan Clark, direttore del Center for Defense Concepts and Technology presso l’Hudson Institute, e Dan Patt, senior fellow dell’Hudson Institute, sono però stati chiarissimi nello scrivere sul Foreign Policy che la superiorità militare statunitense in Asia “non è più un dato di fatto” e che “i pianificatori della Difesa Usa hanno bisogno di una strategia diversa”.



Fine della superiorità militare

L’assunto base riguarda il primato globale dell’esercito statunitense. Una preminenza fatta valere per almeno un trentennio abbondante, e sulla quale Washington ha edificato le proprie strategie di politica estera e di sicurezza. Il problema è che, mentre erano convinti che niente potesse scalfire la loro condizione, gli Stati Uniti non hanno fatto i conti con molteplici processi che hanno progressivamente cambiato (e lo stanno ancora facendo) le regole del gioco.

Ne citiamo almeno due: l’enorme progresso tecnologico-militare della Cina, prima silenzio e poi talmente evidente da non poter più essere ignorato, e l’organizzazione antiquata e non adatta al presente che il governo statunitense ha continuato ad utilizzare nella gestione delle proprie forze armate.

Tutto questo ha eroso l’enorme vantaggio militare degli Stati Uniti nei confronti della Cina, al punto che Pechino sarebbe arrivata, secondo alcuni, addirittura nelle condizioni di poter vincere una guerra regionale contro gli americani. Certo, il gap militare tra le due potenze è ancora consistente, ma senza accorgimenti rischia di ridursi a velocità record.



Due alternative per gli Usa

E allora come contenere la Cina? Negli Usa esistono due diverse scuole di pensiero. Da un lato c’è chi sostiene che il modo migliore per scoraggiare Pechino a fare atti azzardati (come lanciare un’offensiva a Taiwan) consista nel concentrare nella regione dell’Indo-Pacifico una capacità di attacco sufficiente per convincere il leader cinese Xi Jinping che qualsiasi mossa contro gli interessi di Washington sarebbe destinata a fallire.

Dall’altro lato, agli antipodi della classica deterrenza, troviamo invece chi preferirebbe optare su altri piani. Nello specifico, anziché mostrare i muscoli e ottimizzare l’esercito americano – in vista di un’invasione a Taiwan che tecnicamente potrebbe arrivare tra qualche anno così come mai – i fautori di questo secondo pensiero ritengono che sarebbe più utile lanciare una campagna a lungo termine in grado di minare la fiducia di Pechino. In grado, meglio ancora, di aumentare la percezione della Cina secondo cui qualsiasi conflitto in Asia sarebbe lungo ed estremamente costoso.

Al momento, l’approccio degli Stati Uniti è orientato all’ottenimento del successo in una qualsiasi operazione militare, qualora il Dragone dovesse fare passi azzardati. Eppure, sono in molti a ritenere che per placare gli istinti di Xi potrebbe essere sufficiente trovare il modo di far riflettere il Partito comunista cinese sulle conseguenze di un conflitto. Detto altrimenti, non stringere o mostrare i muscoli a Pechino, bensì creare incertezza nella mente dei leader cinesi sul fatto che i loro piani possano avere successo a condizioni accettabili.

Del resto, un’invasione a Taiwan che impantanerebbe l’esercito cinese o che prosciugherebbe le risorse del Dragone (come quanto sta accadendo alla Russia in Ucraina) faticherebbe ad essere sostenuta oltre la Muraglia e ogni ipotetica vittoria sarebbe di Pirro.



Gli errori di Biden

Joe Biden ha commesso intanto errori evitabili. L’ultimo, e più clamoroso: non aver partecipato in prima persona a due importanti appuntamenti asiatici: il vertice dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) e quello dell’Asia orientale, entrambi a Jakarta, in Indonesia. A fare le veci di Biden, che si è invece recato nella regione per prender parte al G20 e viaggiare in Vietnam, c’era il vicepresidente Usa, Kamala Harris.

L’assenza dell’inquilino della Casa Bianca ai richiamati appuntamenti avrebbe irritato i diplomatici del sud-est asiatico e, a quanto pare, compromesso – almeno in parte – il testa a testa avviato dagli Usa con la Cina per ottenere il sostegno dei Paesi della regione. Per Washington si sarebbe trattato di un semplice fatto organizzativo ma per i membri dell’Asean l’intera vicenda è stata letta come una sorta di affronto diplomatico. Il tutto, va da sé, mentre gli Stati Uniti avrebbero potuto consolidare la loro presenza in loco a discapito dei cinesi.

In tutto ciò, per puntare al contenimento della Cina, gli Usa sono chiamati ad insistere sul patto di sicurezza Aukus, stretto con Australia e Regno Unito, e sull’espansione della cooperazione militare con Filippine e Giappone. Questo potrebbe contribuire ad erodere la fiducia di Xi, ancor più in caso di esercitazioni militari congiunte o della presentazione di una nuova capacità militare in Asia orientale.

Certo, in cambio di un tentativo di garantire una coesistenza pacifica, attuare una simile strategia di dissuasione richiederebbe ai leader Usa di accettare la non scomparsa della Cina dalla scena globale. E c’è chi non è favorevole ad un simile cambio di paradigma. “Ridurre i bilanci della difesa mentre si persegue tenacemente il dialogo ad ogni costo è un segnale di debolezza. Pechino può solo interpretarlo come un via libera a spingere di più”, scriveva lo scorso giugno il think tank Usa The Heritage Foundation.

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