Al di là dell’imprevedibilità delle urne e contro ogni possibile sorpresa, in questa campagna elettorale il vero incubo di Boris Johnson si chiama Theresa May.

Il leader scapigliato dei Conservatori oggi è considerato il vincitore in pectore delle elezioni che la mattina di venerdì 13 dicembre consegneranno alla Gran Bretagna un nuovo parlamento.





Sono i numeri a dirlo, ma sono gli stessi numeri che a poche settimane dal voto dell’8 giugno 2017 prefiguravano l’ampia vittoria di Theresa May che veleggiava con 20 punti di vantaggio su Jeremy Corbyn.

Poi, tutto è precipitato. Fatale, per l’ex primo ministro inglese, un mix di fattori, politici e personali, acutizzato e reso irreversibile in un preciso punto di non ritorno: la disastrosa presentazione del programma elettorale. Era il 20 maggio.

Oggi, a tre settimane dalle elezioni, il sondaggio commissionato e pubblicato dall’Observer certifica l’avanzata dei Conservatori che si attestano a 19 punti dai Laburisti, guidati dallo stesso Corbyn di allora. Più vecchio, più ammaccato dalle accuse di antisemitismo e di socialismo in salsa anni Settanta, ma sempre convinto di poter rimontare come accadde due anni fa.

Questa volta, però, l’avversario è diverso, Johnson conosce gli errori della May e cerca di evitarli accuratamente, si macchia solo dei suoi sperando di offuscarli grazie ad una campagna forte di un semplice messaggio: “Get Brexit done”. “Facciamo questa Brexit” va ripetendo ossessivamente BoJo giurando di essere l’unico in grado di mettere fine a questa odissea.

La lezione di Theresa May

La seconda leader dei Conservatori alla guida del governo inglese dopo Margaret Thatcher non verrà ricordata con lo stesso lustro conferito alla sua antesignana. Non per il momento, almeno, visto che cronache impietose e analisi feroci raccontano ai suoi contemporanei una figura rigida e ostinata, così ostinata nel perpetrare i suoi errori da rendersi responsabile di fallimenti imperdonabili. Il primo tra tutti, quello elettorale del 2017.

May, che aveva indetto le elezioni per superare l’empasse in aula generata dalle posizioni del gruppo degli Euroscettici (Erg) e quindi riprendersi la piena guida del suo partito, si è ritrovata tra le mani una vittoria risicata, di conseguenza, un nuovo governo senza maggioranza. Una situazione così precaria che, nonostante la stampella offerta dagli Unionisti Irlandesi (Dup), si è potuta risolvere solo con una inevitabile resa, la scorsa estate, con le dimissioni, le lacrime e il passaggio di consegne a Boris Johnson.

Gli errori da non ripetere

Ma quali sono gli errori imputati alla May? Errori personali e politici, frutto di una di una leadership debole ed errori strategici, durante la campagna elettorale e nelle scelte programmatiche successive.

Ignorando chi la metteva in guardia da decisioni pericolose, May, il 20 maggio 2017, è crollata sotto il fuoco di fila delle critiche alle sue proposte di riforma, in primis quella dell’assistenza sociale, ribattezzata “dementia tax”. Un errore strategico, politico e di comunicazione frutto anche della nota difficoltà di relazione tra i membri del suo stesso staff, spesso scelti più per la lealtà dimostrata al capo che per il loro vero valore professionale. E’ una scelta, ma in questo caso decisamente non ha pagato.

Allora, si chiede oggi Boris Johnson, perché aprire a questioni controverse rischiando di spaccare un elettorato anche eterogeneo, ora ricompattato sotto l’ombrello della Brexit? Certe decisioni, la sua risposta, si possono prendere dopo, magari con accordi di larghe intese – così si suddivide equamente la colpa un pò tra tutti i partecipanti – e si vincono le elezioni agevolmente grazie a slogan semplici e a rischio zero.

Questo il ragionamento alla base della campagna elettorale dei Conservatori che hanno puntato tutto su una cinquantina di pagine di programma, per lo più ricche di foto, dove l’idea di base va oltre ogni più rosea speranza: rimettere soldi nelle tasche degli inglesi.

Il fattore femminile

La May si era circondata di soli consiglieri maschi? Per rispondere anche alle accuse di machismo e misoginia, (Johnson è considerato ‘incompetente’ dal 51% delle cittadine britanniche), Boris ha chiamato a sé due donne.

Voci di palazzo raccontano di consiglieri, tra cui il fedelissimo Micheal Gove, chiusi fuori dalla porta, mentre Munira Mirza e Rachel Wolf davano l’ultima supervisione al manifesto prima che venisse presentato pubblicamente in una domenica di pioggia, in una località amena come Telford, una new town di 140 mila anime della contea dello Shropshire.

La Wolf, 33 anni, figlia dell’esperto di economia che firma sul Financial Times, aveva già lavorato per Johnson quando lui era Ministro Ombra della Formazione, nel 2006.

Munira Mirza, invece, 41 anni, è figlia di immigrati pakistani, negli anni ’90 è stata attivista del partito dei comunisti rivoluzionari salvo poi collaborare per un Think Tank di centro destra e infine approdare nella squadra di Boris quando lui era sindaco di Londra.

Ma nonostante il tocco femminile, sono state molte le critiche raccolte da un programma “scansa pericoli” giudicato per nulla ambizioso che ha puntato tutto sulla Brexit e sulle successive promesse di rilancio di un Paese ormai sfiancato.

Il giudizio internazionale

Il Regno Unito paga tre anni di incertezza anche con il recente declassamento dall’agenzia di ratings Moody’s, così come accadde nel Settembre 2017, in pieno governo May II.

All’epoca, il rating del Paese era sceso da Aa1 a Aa2. L’affidabilità e garanzia del pagamento del debito, invece, oggi scende da  Aa2 con “prospettiva stabile” a una “prospettiva negativa”,

Il primo declassamento dal livello Aa1 “stabile” a quello “negativo” era arrivato dopo il referendum sulla Brexit, nel giugno 2016, proprio in virtù della incertezza rappresentata dal futuro dell’economia inglese dal punto di vista degli investitori internazionali.

Oggi, stando alle valutazione di Moody’s, i piani di spesa annunciati dai candidati esporrebbero il Regno Unito a fattori di rischio alti, anche a fronte di una insufficiente (se non del tutto assente) spiegazione di come verrà finanziata questa spesa massiva promessa nei diversi programmi elettorali.

Ma non è finita. La grande sfida sul piano internazionale per il Regno Unito è rappresentata ancora dall’Europa.

La May, che come spiegato, aveva indetto le elezioni per superare l’instabilità all’interno del suo partito e portare a casa la Brexit, ha perso entrambe le partite.

In particolare, nelle trattative con l’Europa, è stata accusata di essere troppo remissiva giungendo ad un accordo finale giudicato poco vantaggioso e per questo bocciato tre volte dall’aula.

In tutta risposta, il ritornello di Johnson semplifica e garantisce: il mio accordo verrà approvato dalla House of Commons entro Natale così si esce dall’Europa e finalmente la Gran Bretagna, di nuovo sovrana, ripartirà grazie a nuovi investimenti e nuove energie.

A onor del vero va ricordato che, in base alle più recenti analisi fornite dalla London School of Economics, l’accordo sottoscritto da Johnson assorbe il 72% di quello della May con la grande e fondamentale differenza relativa alla ‘questione irlandese’.

May e Johnson: la manager e lo scapigliato

Le differenze tra Boris Johnson e Theresa May sono abissali. Lo staff di Boris Johnson, consapevole della sua spregiudicatezza, che gli è valsa tante gaffes e critiche, lo tiene a debita distanza da pericolose interviste, così come molto controllati sono gli incontri pubblici a favore di telecamera.

Theresa May, sempre inappuntabile, distaccata e rigida nell’atteggiamento, non appariva simpatica né si sforzava di esserlo.

Johnson, sempre disordinato, spettinato e tagliente punta tutto sul ‘noi’, cioè: “Io e voi siamo il popolo contro il sistema”. Il problema è che difficilmente gli viene perdonata la sua provenienza da quel mondo esclusivo di Eton e dell’alta società che gli rende difficile passare per ‘uno di voi’.

Theresa May è stata un candidato schivo che non voleva la personalizzazione della campagna elettorale e mal digeriva le domande sulla sua vita privata; insomma il contrario di tutto quello che va di moda nella ‘politica pop’.

Come Primo Ministro si è sempre mostrata molto attenta ai dettagli, dando l’idea di essere più che altro una manager, sempre incline alla negoziazione fino a perderci la voce. Così come succedeva nei viaggi continui tra Londra e Bruxelles per portare a casa un accordo sulla Brexit.

‘Un politico serio e serioso, senza fuochi d’artificio e di poche battute’ la definisce la professoressa Eunice Goes, docente di Scienze Politiche presso la Richmond University di Londra, che però spiega anche come, la poca simpatia all’impatto non le impedisse di risultare nei fatti più affidabile.

Insomma, il suo profilo poco adatto ai tempi della comunicazione televisiva e social, non verrà ricordato per essere quello di un politico visionario che scalda le folle.

Boris Johnson, al contrario, esprime una forte personalità molto divisiva e un grande culto di sè. “La sua visione  – spiega la professoressa Goes – non è ben chiara, se non per la posizione netta espressa sulla Brexit”.

Lì si gioca tutto il suo futuro politico e il sogno del grande rilancio per il Paese. Probabilmente, conclude la professoressa Goes, “il suo non essere dotato di una visione ne’ di una strategia a lungo termine e il fatto che non abbia mai mostrato grande attenzione per i dettagli saranno limiti con cui sarà costretto a fare i conti” se e quando il suo partito otterrà l’auspicata maggioranza e lui si ritroverà con le chiavi di Downing Street in mano.

Questi stessi limiti lo accompagneranno anche nei suoi futuri viaggi a Bruxelles dove un agguerrito Emmanuel Macron e una più apparentemente remissiva Angela Merkel lo aspettano al varco con i nuovi negoziatori espressi dal nuovo parlamento europeo.

Nuovi giocatori, stesso campo e stessa vecchia partita dal risultato ancora altamente incerto.

Sicuramente, nelle urne, a fare la differenza, oggi come allora, è una diffusa e malcelata paura di vedere Jeremy Corbyn, non tanto il partito dei Labour, alla guida del Regno Unito.

Questo spauracchio per Johnson è vento a favore così come “l’effetto chiudiamo la Brexit” che riesce a creare un fronte unito ed eterogeneo all’insegna del vecchio motto coniato da Margaret Thatcher, l’effetto TINA. “There Is No Alternative”, ovvero “Non c’è alternativa”. Questa volta non si tratta di una questione di visione neoliberista, quanto piuttosto di “Non c’è alternativa a me, (Boris), anche se non vi piaccio molto..”

Il futuro dei Conservatori

Il partito conservatore inglese è “il partito più antico della storia – spiega il professor Tony Travers della London School of Economics – perché ha saputo sopravvivere grazie alla sua capacità di adattarsi e riorganizzarsi in base ai tempi”.

In questo senso, una vittoria Johnson l’ha già portata a casa. Con la sua strategia ha vinto il braccio di ferro con i populisti britannici.

Annientando il partito di Nigel Farage, costretto al suicidio politico che lo ha ridotto al 3% cancellando il grande exploit delle elezioni europee di Maggio (quando sbaragliò con il 32%), Johnson ha definitivamente fagocitato l’ala populista della destra inglese.

Farage ha fatto un passo indietro lasciando i seggi precedentemente vinti dai Conservatori liberi da sfide contro il suo Brexit Party e ha tenuto una debole manciata di carte in pugno sperando di potersi eventualmente giocare una seconda partita dopo le urne. Se Johnson non avrà una maggioranza netta, Farage tenderà la mano e avanzerà le sue richieste.

Ma alla luce dei fatti, il suo partito ormai è ridotto ai minimi storici a tutto vantaggio dei Conservatori e del suo carnefice, Boris Johnson.

Il prezzo pagato per questa progressiva spinta a destra in casa Tories è stato la perdita dell’ala più moderata, fuoriuscita per contrasti con questa  leadership. Come conseguenza, ex volti storici del partito si sono fermati un turno o si sono ridistribuiti tra candidature Indipendenti e l’ingresso nei Liberal Democratici.

Ma se in campagna elettorale, probabilmente, l’assunzione di posizioni più estremiste potrà pagare, dopo il 13 dicembre i Conservatori saranno chiamati a ridefinire il loro profilo di governo (se vittoriosi) e a rendere chiara la loro visione politica per il futuro.

Da qui la scelta tra rendere il partito più moderato, in linea con i conservatori europei scevri dall’estremismo che ultimamente ha puntellato certe aree dell’Unione, o restare su queste posizioni che, nel Regno Unito, ancora non hanno affrontato la prova del governo.

In attesa di mostrare quale sarà l’anima di sintesi che esprimerà il suo partito, Boris Johnson si concentra sulla strategia a breve termine.

La sua necessità più impellente è quella di esprimere quel “nuovismo” indispensabile a far dimenticare chi lo ha preceduto aprendo il Vaso di Pandora della politica nella storia inglese più recente, il fantasma che aleggia più minaccioso sulla sua cavalcata vittoriosa verso Downing street.

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