Le elezioni per il rinnovo della metà dei seggi della House of Councillors, la Camera Alta giapponese, si sono concluse con l’ennesima vittoria della maggioranza governativa di centrodestra.
Il Partito Liberal democratico (Ldp), che esprime il primo ministro Shinzo Abe e il suo partner nell’esecutivo, il partito di ispirazione buddhista Komeito, avrebbero conquistato almeno 71 dei 124 seggi a disposizione in questa tornata elettorale. Alla variegata opposizione politica, che va dal Partito costituzionaldemocratico, di centro-sinistra, al Partito democratico per il Popolo, di centrodestra, e che passa anche per il Partito comunista e quello dell’Innovazione, sono stati attribuiti il restante numero di scranni. Un successo elettorale, quello dell’esecutivo di centrodestra, che rivela sia luci che ombre sulla solidità del sistema democratico giapponese e sulle prospettive dello stesso governo.
Una vittoria senza eccessi
Questo appuntamento elettorale aveva un significato speciale per il premier Abe. Il suo governo ha infatti una maggioranza dei due terzi dei seggi nella Camera dei Rappresentanti, ma difetta dello stesso numero di scranni nell’altro ramo del Parlamento, Raggiungere questo percentuale in entrambe le Camere avrebbe consentito al premier di far votare il suo agognato disegno di riforma costituzionale: la definizione del ruolo delle Forze di autodifesa giapponesi nella Costituzione. Quest’ultima, redatta negli anni dell’occupazione americana dopo la sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, è di stampo pacifista e non prevede un esercito vero e proprio e senza una chiara definizione costituzionale.
Il premier vuole una riforma della Carta per dare nuovo prestigio a un’istituzione, quella delle forze armate, fortemente screditata dopo i tragici eventi della Seconda Guerra Mondiale. Il desiderio si è però scontrato con la realtà delle urne: raggiungere la maggioranza dei due terzi in entrambe le Camere si è rivelato troppo anche per un premier di successo come lui, che comunque avrebbe poi dovuto giocarsi tutto in un referendum popolare confermativo.
La vittoria elettorale permetterà al premier di restare al potere almeno fino a Novembre e di divenire così l’uomo ad aver servito più a lungo come Primo Ministro nella storia del Giappone moderno. Abe ricopre questa carica dal 2012 ed era già stato premier dal 2006 ed il 2007. In quell’anno si era dovuto dimettere proprio perché il Partito liberal-democratico aveva perso il controllo della House of Councillors. Quest’ultima ha una certa importanza per la stabilità degli esecutivi: un suo voto contrario ad un disegno di legge può essere superato da una votazione di segno opposto e a maggioranza semplice della Camera dei Rappresentanti per le materie più rilevanti, come la conferma del primo ministro o il budget nazionale. In tutti gli altri casi la Camera dei Rappresentanti deve raggiungere i due terzi dei voti per superare il veto della House of Councillors: questo può rivelarsi difficile e di fatto garantisce alla Camera alta un vero e proprio potere di veto.
Una democrazia con poco ricambio
La conferma delle debolezze dell’opposizione politica rappresenta uno dei dati più significativi che emergono dalle urne. Il Partito liberal-democratico ha governato il Paese del Sol Levante per buona parte del periodo compreso tra il 1955 ed oggi e continua a rivestire un ruolo centrale negli equilibri politici nipponici. I diversi partiti di opposizione non sono evidentemente riusciti a trovare una chiave di lettura efficace per scalzare Abe dal suo ruolo, malgrado l’esecutivo in carica non sia riuscito, negli ultimi anni, a mantenere tutti i suoi obiettivi. L’economia ha dato segnali di ripresa ma non al punto tale da generare una crescita molto sostenuta, il tasso di nascite non ha registrato balzi in avanti, la popolazione giapponese continua ad invecchiare e la percentuale di donne negli organismi politici rimane bassa.
Nell’ambito delle relazioni internazionali, invece, il Giappone ha diverse sfide strategiche davanti a se: dalla normalizzazione dei rapporti con la Russia, dove la disputa sul controllo delle Isole Curili è ancora da risolvere, a quelli non facili con la Cina e la Corea del Nord, che non vedono di buon occhio il ruolo di Tokyo come principale partner strategico americano nella regione. Gli elettori sembrano comunque aver preferito una certa stabilità alle incognite di un’ alternativa frammentata tra movimenti con ideologie molto diverse tra loro. L’affluenza alle urne ha raggiunto una delle percentuali più basse di sempre, fermandosi ad appena il 48 per cento degli aventi diritto al voto.
Questo dato, più di altri, suona come un campanello d’allarme per la salute della democrazia del Sol Levante. L’apatia di una parte consistente degli elettori può essere interpretata come un dato fisiologico in molte democrazie moderne ma anche come una difficoltà, per chi non è al governo, di galvanizzare una base politica che dovrebbe essere desiderosa di cambiamento. Questa dinamica può essere influenzata tanto da una propensione alla stabilità da parte della società giapponese quanto da un messaggio politico non convincente da parte di chi vorrebbe andare al governo del Paese. Le disfunzionalità di questo processo sono chiare: un’opposizione frammentata e inefficace è incapace di generare un ricambio politico che è, in fondo, il sale della democrazia. La crescente apatia degli elettori giapponesi è uno dei segnali più preoccupanti che emergono dalle urne ed è un fattore che continuerà a rendere facile la vita degli esecutivi guidati dal Partito Liberal Democratico.