(Tokyo) A giudicare dai ritratti, dalle leggende e dagli epiteti che circolano sul web, il rischio di immaginarsi Tomomi Inada come una sorta di Darth Vader al femminile è parecchio concreto. E invece, la 59enne ex ministro della Difesa del governo di Shinzo Abe, per la verità la prima donna della storia del Giappone a ricoprire l’incarico se si esclude la parentesi di Yuriko Koiko (in carica ad interim nel 2007 per poche settimane), si presenta dal vivo come una signora brevilinea, dai modi aristocratici, di gran classe. Pacata nelle movenze ma estremamente efficace nelle espressioni. Avvocatessa e abile stratega politica, è la donna in nero del Partito Liberaldemocratico giapponese (Ldp), ruolo che accetta con dignità ma che l’ha resa inevitabile bersaglio del politicamente corretto.

L’abbiamo incontrata durante uno degli eventi organizzati dal Nippon Kaigi, il think tank di destra di cui fa parte e che ad un certo momento dell’avventura politica di Abe esprimeva 18 membri su 20 di tutto il gabinetto. La location scelta per il meeting è casuale, ma trovandosi a pochi passi dall’ex Quartier generale delle Forze di autodifesa di Ichigaya dove Yukio Mishima fece seppuku il 25 novembre 1970, la carica simbolica non può che aumentare a dismisura.

Tomomi Inada preferisce evitare di entrare nel dettaglio della scelta di presentare le dimissioni da ministro della Difesa del luglio 2017, dopo le accuse di aver insabbiato una serie di informazioni relative alla situazione della sicurezza delle forze di pace giapponesi dispiegate in Sud Sudan nell’ambito della missione delle Nazioni Unite.

“Sono fatti di cui non sono in alcun modo responsabile. Le opposizioni hanno voluto colpirmi per via della mia vicinanza con Abe”, dice. E in effetti non sono pochi gli analisti politici che l’avevano designata per subentrare, entro le prossime due legislature, proprio al primo ministro in carica, divenendo la prima donna a governare l’unica nazione rimasta al mondo guidata da un Imperatore.

Già, l’Imperatore. Quello che con la Costituzione sorta dal disastro nucleare è stato “declassato” a figura puramente umana, abdicando a una tradizione millenaria che lo vede come erede di sangue della dea del Sole, Amaterasu. Nel progetto di riforma dell’art. 9 della Costituzione promosso a più riprese da Tomomi Inada e dal Nippon Kaigi c’è anche una “rilettura” che contempli il ritorno dell’Imperatore al ruolo effettivo di capo dello Stato, e il ripristino delle sue prerogative divine. E poco importa che il prossimo 30 aprile l’83enne Akihito abdicherà, perché l’intenzione della donna in nero e della corrente ultraconservatrice dell’Ldp che tanto piace a Steve Bannon è quella di restaurare lo spirito nazionalista del Giappone, a prescindere dai singoli eventi.

L'imperatore giapponese Skihito in una foto del 2002 (LaPresse)
L’imperatore giapponese Skihito in una foto del 2002 (LaPresse)

“Ho ricoperto la carica di ministro appena un anno, ma è stato sufficiente per rendermi conto di quanti cambiamenti andrebbero apportati nella struttura della Difesa giapponese”, confessa Inada-san, che ci tiene a fare degli esempi: “Una delle principali criticità da risolvere è la ripartizione dell’esercito in fanteria, marina e aviazione, che non hanno alcun raccordo tra loro e che non sono coordinate in modo efficace per affrontare eventuali emergenze. È un po’ una storia che si ripete, dacché durante la Guerra del Pacifico l’aviazione non esisteva nemmeno, e le forze aeree erano divise tra esercito di terra e marina, in perenne conflitto tra loro e causa principale della disfatta bellica.

“È comprensibile che non si riesca ancora a capire appieno quale sia l’importanza di un Ministero come quello della Difesa, perché esiste appena da una decina d’anni e non è ancora stato strutturato per poter facilitare il coordinamento delle forze operative”.

Pur con il divieto costituzionale di ricorrere alla guerra per dirimere i contrasti internazionali, l’esercito giapponese è comunque considerato il quinto al mondo. Allo stesso modo, il Giappone non ha mai affermato di possedere bombe atomiche, ma ha ammesso di avere la tecnologia per produrle. Di fatto, è considerato una potenza nucleare “ufficiosa”. È evidente dunque che una dimensione militare di questo genere richieda un’organizzazione adeguata. Anche perché, con lo strapotere cinese nel Pacifico, il Giappone non può che rivendicare il diritto alla propria sicurezza: “Già quando ero ministro della Difesa – ammette Inada – il nostro Paese si trovava in una delle zone più calde del pianeta. Ho avuto a più riprese la sensazione che il Giappone potesse finire in serio pericolo da un momento all’altro, senza avere gli strumenti adeguati per reagire”.

Il ruolo di subalternità militare rispetto agli Stati Uniti, insomma, le sta stretto: “Il Giappone deve semmai collaborare con gli Usa per arginare l’azione di Russia, Cina e Corea del Nord che minacciano la stabilità dell’Estremo Oriente”.

La sua esperienza è l’esempio che, visto lo scenario geostrategico in continuo mutamento, il ricorso alle missioni di pace come quella in chiave anticinese in Sud Sudan, che le è costata la poltrona, non sia più sufficiente per affermare il proprio peso politico: “Il Giappone del dopoguerra è cresciuto nell’illusione che la pace potesse essere perpetua. A settant’anni dall’entrata in vigore della nuova Costituzione abbiamo però il dovere di rivedere alcuni paletti per proteggere meglio i nostri cittadini”.

Per questo, Inada è stata a lungo a capo di uno speciale comitato governativo da lei stessa creato con il compito di riesaminare in senso radicalmente riformatore la storia moderna del Giappone: dalla strage di Nanchino, all’attacco di Pearl Harbor, fino al ruolo delle “confort women” coreane e filippine e alle sentenze di disonorevole morte per impiccagione dei criminali di guerra processati a Tokyo tra il ’46 e il ’48. Non a caso ha rivendicato il pieno diritto di personalità politiche a recarsi al maestoso tempio di Yasukuni, a pochi passi dal Palazzo Imperiale, dedicato ai 2,5 milioni di soldati caduti in guerra per proteggere il Giappone, compresi i criminali di guerra: “Yasukuni non è il luogo per un patto di pace: è il luogo dove si onorano le anime dei soldati che hanno combattuto una disperata guerra contro gli invasori che volevano distruggere il Giappone”, conclude, lasciando che la fierezza tradisca solo per un attimo lo straordinario portamento.

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