Più di cento anni sono passati da quello che gli armeni hanno ribattezzato Metz Yeghern, la terribile prova generale di tanti genocidi del Novecento. Una vicenda atroce che ancora oggi non trova lo spazio che meriterebbe sui media e nei libri di storia. La questione, infatti, è ben lontana da incontrare un consenso unanime su quei fatti ed il genocidio armeno, nonostante prove, fonti e testimonianze, è ancora vittima di negazionismo storico e politico. Come da copione, la Turchia, da tempo immemore, nega fortemente il genocidio adducendo motivazioni ondivaghe: non si può parlare di genocidio prima del 1943, l’assenza di intenzionalità, le morti armene come fatto “incidentale” nella Prima Guerra Mondiale e così via. In qualunque modo venga posta la questione il governo turco si è sempre posto in maniera impassibile nei confronti dei “fatti del 1915”, come spesso li definisce in maniera chirurgica Recep Tayyip Erdogan, arrivando ad inimicarsi qualsiasi governo “reo” di riconoscere il massacro. Per questa ragione, negli ultimi due decenni – che hanno visto un progressivo sdoganamento della vicenda – il genocidio armeno è diventato arma politica per il mondo intero, Turchia compresa, a scapito della verità e della giustizia. Una tematica al vetriolo anche per le relazioni Usa-Turchia che insiste su una base tutt’altro che banale come la Nato.
Una svolta bipartisan
Poi, la svolta di martedì 29 ottobre. Con una scelta fortemente bipartisan (405 si su 435 voti) la Camera statunitense ha riconosciuto il genocidio armeno con un testo che ha come preciso intento quello di allontanare dagli Stati Uniti il sospetto di negazionismo. Un provvedimento storico, pur se contraddistinto da una forza non vincolante, forte quanto basta per scatenare le ire di Ankara: dalla capitale turca prima si è tentato di sminuire il valore della vicenda per poi convocare l’ambasciatore Usa David Satterfield. Una vera e propria miccia accesa in una congiuntura più che rovente legata alla Siria e all’arrivo, in visita di Stato negli Usa, di Recep Tayyip Erdogan: visita prevista per il 13 novembre, che il leader ha scelto di non confermare ancora. Nel frattempo, il governo turco ha teso a denigrare la portata storica del provvedimento, bollato come “ad uso interno, privo di qualsiasi base storica e giuridica”.
Il braccio di ferro fra Usa e Turchia è cosa antica ed è andato ad acuirsi soprattutto durante le ultime battute della Guerra Fredda. Ondivago è stato l’atteggiamento che le amministrazioni americane hanno avuto nei confronti della vicenda: se, da un lato, i rapporti con la Turchia vanno tutelati in nome della Realpolitik Nato, Washington ha sempre avvertito la pressione della cosiddetta Armenian Lobby. Bisogna, infatti, ricordare che negli Stati Uniti vivono quasi un milione di armeni, metà dei quali residenti in California: si tratta della più grande comunità armena lontana dalla madrepatria. Ergo, il tema del genocidio ha rappresentato sempre un tema scottante nel quale bilanciare spinte interne e relazioni diplomatiche.
L’atteggiamento altalenante di Washington
Negli anni Ottanta erano stati soprattutto i Repubblicani a battere sul tema: da Ronald Reagan nel 1981 (che aveva accostato il genocidio armeno all’Olocausto e alla dittatura cambogiana) sino a George Bush Sr che, per la prima volta, aveva sdoganato pubblicamente l’argomento. Terminata l’era dei cold warriors, Bill Clinton non era stato da meno, paragonando la vicenda armena a “piaghe” come la dittatura comunista, ma sarà proprio la sua amministrazione ad imporre una frenata brusca al riconoscimento del genocidio. L’ex presidente aveva espresso la propria apprensione per la Risoluzione 596 che riconosceva pubblicamente il genocidio. In una lettera del 19 ottobre 2000, il presidente americano esprimeva allo speaker della Camera la propria apprensione per una pubblica azione simile e, pur condividendone lo spirito, evidenziava come prioritarie altre questioni come la stabilizzazione dei Balcani, il contenimento della minaccia Saddam Hussein e la ricerca di fonti energetiche alternative. Il testo della risoluzione, poi, andava quantomeno emendato individuando nell’“Impero Ottomano” e non nel “governo turco” il mandante dello sterminio.
Complesso anche il post-11 settembre. Se George W. Bush Jr il 24 aprile 2006 (giorno in cui il popolo armeno commemora il genocidio) esprimeva la vicinanza di Washington a Yerevan, augurandosi, inoltre, una felice risoluzione del dramma del Nagorno-Karabakh, molto dura fu Condoleezza Rice che, in qualità di Segretario di Stato, confessò la propria contrarietà ad una legge sul riconoscimento del genocidio, prediligendo la costituzione di una commissione storica congiunta Armenia-Turchia, in grado di far luce sui fatti e inaugurare l’era della collaborazione. Anche Barack Obama, durante la campagna elettorale del 2008, si era impegnato pubblicamente con i gruppi armeni negli Usa, per poi disimpegnarsi tiepidamente senza mai riuscire a pronunciare la parola “genocidio” : la vicenda siriana arrivò a bussare sia ad Ankara che a Washington e dunque si sa, noblesse oblige. Anche il presidente attuale Donald Trump è tornato più volte sul tema, senza però mai pronunciare la parola “genocidio” in luogo della più “tiepida” locuzione di “massacro”.
Cui prodest?
Cui prodest? Viene da chiedersi. Stante la bontà intrinseca del passo, in termini umani, storici e diplomatici, anche ad un occhio poco malizioso il tempismo degli eventi appare quanto meno sospetto, se lo si lega soprattutto alla prospettiva di sanzioni e restrizioni al governo turco in seguito all’offensiva in Siria. Certo è che, se di cinismo si vuol parlare, questo non è imputabile esclusivamente al presidente Trump, visto il consenso bipartisan che la risoluzione ha scatenato: un effetto quasi liberatorio, dunque, dalle pastoie delle pressioni politiche e dei ricatti che Ankara esercita sugli alleati d’Oltreoceano. Del resto, l’uso politico di queste vicende è prassi, purtroppo, ben consolidata nel sistema internazionale: perfino Vladimir Putin ha più volte espresso il suo pubblico cordoglio per la sofferenza armena in maniera talmente maldestra (come nel 2015, anno del centenario del Metz Yeghern ) da provocare l’indignazione di Ankara. E mentre il Risiko del riconoscimento del genocidio continua, quasi un milione e mezzo di innocenti deportati, massacrati, stuprati aspettano ancora verità e giustizia.