Per Israele e Libano è un giorno che può sancire una svolta. L’aggettivo “storico”, in riferimento a un episodio dei nostri giorni, viene spesso abusato dalla cronaca: perché è solo il passare del tempo a poter davvero riconoscere un fatto come qualcosa che può definire un vero e proprio cambiamento. Tuttavia, l’accordo sulla demarcazione dei confini marittimi tra Israele e Libano, approvato dai due governi e dalla “benedizione” anche di Hezbollah, ha un significato particolarmente importante.
Lo possiede per diversi motivi. Il primo è quello più palese e che è stato riconosciuto dal premier israeliano Yair Lapid a margine della riunione dell’esecutivo. “Non capita tutti i giorni che un Paese nemico riconosca lo Stato di Israele, in un accordo scritto, di fronte alla comunità internazionale”, ha detto il primo ministro. E in effetti è fondamentale soffermarsi già su questo punto: di fatto Beirut ha sancito, pur non con un atto specifico, di intrattenere relazioni diplomatiche con lo Stato ebraico e di riconoscerlo quale interlocutore. Vero è che le due delegazioni non si incontreranno, almeno pubblicamente, e la firma avverrà in due stanze separate della base Onu di Naqoura con lo scambio che avverrà attraverso il delegato statunitense, Amos Hochstein. Ma se questa immagine serve a evitare di dare l’impressione di normalizzare i rapporti, è altrettanto evidente che l’accordo in sé è più di un segnale in questa direzione.
L’importanza dell’accordo è data anche dal fatto che le trattative, iniziate nei primi anni Duemila e riprese solo nel 2020, avevano subito numerosi alti e bassi che avevano inciso sulla stessa possibilità di ratificare l’accordo. In particolare per le resistenze interne ai due Paesi per evitare che si giungesse a questo accordo visto dai nazionalisti di entrambi gli schieramenti come un compromesso al ribasso. Resistenze sui negoziati che riguardavano non tanto la delimitazione dei confini marittimi, quanto la spartizione dei giacimenti di gas che si trovano proprio nell’area contesa. Un vero e proprio Eldorado utile non solo per soddisfare il fabbisogno interno dei singoli Stati ma anche per esportare quello che oggi è un fattore fondamentale della politica regionale e mondiale.
L’accordo, che riguarda circa 860 chilometri quadrati di mare, interessa in particolare i giacimenti di Karish e Qana. Il primo sarà interamente in acque israeliane. Ieri, come riportato da Adnkronos, la compagnia greco-britannica Energean, aveva annunciato che Israele aveva già iniziato, proprio alla vigilia dell’accordo, lo sfruttamento del giacimento, con il primo trasferimento che sarebbe avvenuto a breve.
Per quanto riguarda il giacimento di Qana, invece, questo sarà in mano libanese quanto a diritti di esplorazione e sfruttamento. Ma l’accordo prevede una forma di compensazione dalla società che gestisce il giacimento libanese “per i diritti su eventuali depositi”. Lo stesso Lapid ha confermato che “Israele riceverà il 17 per cento dei profitti dal campo Qana-Sidone”, motivo per il quale a già la scorsa settimana Sami Gemayel, leader del partito Kataeb, aveva criticato il testo dell’accordo dicendo che di fatto Israele sarebbe stata partner del Libano e che – come riportato da Agenzia Nova – ha detto all’emittente televisiva Lcbi che il Paese è “ostaggio dell’accordo stabilito tra Total e Israele”. Per ora si sa che la Total pagherà questa percentuale una volta compreso appieno il volume di gas che si trova a Qana.

Dalle parole ai fatti, è chiaro che l’accordo poggia su un equilibrio estremamente fragile ma che è interesse di entrambe le parti far riuscire a sopravvivere. Per i due leader, Lapid e Michel Aoun, si tratta di un gesto molto importante anche dal punto di vista elettorale, dal momento che si troveranno presto a dover attendere il risultato delle elezioni nei rispettivi Paesi. E se per il Libano, in bancarotta e con una situazione economica e sociale al collasso, si tratta di un accordo che può aiutare non solo ad avere energia elettrica, ma anche denaro e potere negoziale in campo regionale, per Israele si tratta di un patto che pone fine a una disputa pericolosa e che anzi apre le porte alla possibilità di ulteriori accordi in campo energetico Non ultimo quel negoziato, più o meno ombra, con la Turchia per un gasdotto che legherebbe i giacimento dello Stato ebraico al territorio anatolico bypassando l’isola di Cipro e l’ambizioso progetto di Eastmed.
Sul punto, non va dimenticato che recentemente da parte statunitense si è assistito a un raffreddamento per il gasdotto (il Dipartimento di Stato Usa ha preferito parlare di questioni elettriche, facendo riferimento a un più semplice elettrodotto). Mentre, come scrive Affari Internazionali, “portando il gas israeliano in Turchia, diminuirebbe non solo la dipendenza turca sulle forniture russe, ma anche il fabbisogno turco di gas da altri fornitori, potenzialmente liberando quote per il mercato europeo. In tale scenario, potrebbe diminuire anche il senso di isolamento turco nel Mediterraneo Orientale, elemento che potrebbe favorire nuovi dialoghi anche con la Grecia e Cipro”. L’interesse di Washington è tutto nello sganciamento di Ankara dall’influenza di Mosca e nella possibilità che il Levante, con Israele sempre più potente dal punto di vista energetico e assicurata dagli Accordi di Abramo, possa sopperire al progressivo e voluto isolamento russo nel settore del gas. Questo potrebbe pertanto giocare a favore di una maggiore cooperazione tra lo Stato ebraico e la Repubblica turca. Ricordando però che Atene rappresenta un hub sempre più strategico per la Difesa Usa e un partner imprescindibile per Washington.
D’altro canto, altri attori regionali potrebbero essere interessati allo sviluppo di questo accordo. A tal proposito, non va sottovalutato quanto riportato da Agi, e cioè che Suhail al-Hindi, esponente di spicco dell’ufficio politico di Hamas, ha espresso pieno sostegno all’accordo tra Israele e Libano. “Alla fine, il Libano avrà i suoi diritti economici e la resistenza libanese riuscirà a imporre le sue condizioni a Israele”. Ma al netto delle parole di sostegno al Paese dei Cedri, quello che appare più chiaro è l’interesse di Hamas è capire se si possa aprire una stagione di trattative – ancora più difficili – per sfruttare i giacimenti di gas di Gaza, uno dei punti-chiave dell’eterna sfida tra i due popoli. “Quel gas appartiene al popolo palestinese. Non è giusto che Israele lo possegga. Stiamo tenendo d’occhio le ricchezze della Palestina e non lasceremo che Israele le rubi”, ha detto al-Hindi.
Il messaggio serve soprattutto all’Egitto, dal momento che proprio nella giornata di ieri, il ministro del Petrolio, Tarek El Molla, ha confermato l’esistenza di un accordo quadro per lo sviluppo di Gaza Marine, il giacimento di gas al largo delle coste dell’enclave palestinese. L’agenzia Reuters ha riferito che l’accordo non è chiuso e mancano ancora dei dettagli, ma il fatto che i funzionari israeliani abbiano detto che si dovrà attendere le prossime elezioni può essere letto come un’interessante apertura. Certo, non sfugge che dover discutere con Hamas, che controlla l’area, è più di un limite per qualsiasi governo di Israele. Ma in una fase di profonda ridefinizione delle gerarchie regionali e con Israele che punta a essere una potenza non solo navale ma anche energetica – specie in una fase di richiesta in Europa – è possibile anche che si inizi a mettere dei paletti su questo tema. La volontà del Cairo, in questo senso, unita anche alla politica estera di Joe Biden, potrebbe essere un volano fondamentale.
Anche in questo caso, non è chiaro quanto poi questi accordi possano avere un effettivo sviluppo nel corso degli anni in assenza di una reale pacificazione tra le parti. Qualsiasi giacimento off-shore e qualsiasi infrastruttura energetica diventa immediatamente terreno di scontro o potenziale obbiettivo di attacchi. E questo significa che, in caso di tensioni, lì si andrebbe a colpire anche per incidere in maniera sensibile sugli interessi dell’uno e dell’altro avversario. Il placet di Hezbollah per l’accordo con il Libano così come l’interesse di Hamas per Gaza Marine sono segnali che non vanno sottovalutati. Ma è chiaro che già solo la guerra-ombra tra Israele e Iran, la possibilità di una recrudescenza delle tensioni tra i governi israeliani e il partito di Nasrallah, e la mai risolta questione palestinese, sono tutti punti interrogativi che possono rendere difficile la conferma di questi accordi in un futuro più o meno ampio. Per ora, però, il segnale positivo è arrivato.