Da una parte l’Italia, dall’altra l’Egitto. Al centro due navi e un omicidio – quello di Giulio Regeni – mai risolto. Nell’ombra, invece, si staglia un terzo incomodo: la Francia. Si può descrivere così, con questa immagine estremamente semplice, quello che sta avvenendo tra Roma e il Cairo per la vendita delle fregate Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi. Immagine semplice che cerca però di sintetizzare un ben più complesso e articolato negoziato in cui le due Fremm commissionate dalla Marina Militare italiana a Fincantieri rappresentano solo una enorme punta dell’iceberg.

L’accordo tra Italia ed Egitto sembra definito in ogni parte e il semaforo verde è arrivato sia da parte dei partiti politici che compongono la maggioranza, sia da parte del consiglio dei ministri, che ha già detto di aver dato l’ok alla vendita delle due fregate. Vendita non certo a cuor leggero visto che la Marina resta senza due fregate Fremm che potevano essere molto importanti per la flotta italiana. Ma le conferme arrivate da Fincantieri di una prossima consegna di due navi più moderne, meglio equipaggiate e in dotazione in meno di quattro anni rende meno difficile da accettare.

Tolta la questione di natura militare, resta il nodo politico. Perché se è vero che anche il Partito democratico aveva dato sostengo (seppur silenzioso) all’accordo con l’Egitto, nel momento della notizia della conclusione delle trattative tra Roma e il Cairo si è alzato un polverone che rischia di minare le basi dell’accordo. O quantomeno di rinviare quello che a tutti gli effetti è un segnale di dinamismo strategico da parte dell’Italia in Nord Africa e nel Mediterraneo orientale.

Il problema resta la questione Regeni. Secondo gli avversari dell’accordo, non può esserci un patto di natura militare senza la verità sul brutale omicidio del ricercatore italiano in Egitto. E a ribadirlo è stato non una personalità qualunque, ma Nicola Zingaretti, segretario del Partito democratico e quindi leader del secondo partito di maggioranza. Non certo una personalità secondaria nel panorama del già debole governo giallorosso. Il segretario dem ha scritto una lettera a Repubblica con cui dichiara che senza un processo per i cinque agenti egiziani indagati per il sequestro del ricercatore non può esserci alcun passo avanti nei rapporti tra i due Paesi. Parole dure che arrivano non a caso nel momento di una possibile svolta nelle relazioni bilaterali tra i due governi e che sembra far tornare le lancette dell’orologio indietro di qualche anno, quando addirittura l’Italia rinunciò ad avere un ambasciatore nella capitale egiziana come protesta per il trattamento riservato al dossier Regeni.

Mossa dettata dall’emotività e dalla doverosa condanna nei confronti della morte misteriosa di un nostro connazionale, ma che è costata parecchio all’Italia in termini di interessi strategici. Costi che sono invece tramutati in affari (e anche grandi) per altri nostri competitor internazionali, in particolare per la Francia, che ha ovviamente sfruttato a pieno titolo le frizioni tra Italia ed Egitto per provare a completare l’opera di inserimento di Parigi nel mercato egiziano. A partire da quello della difesa, strumento strategico fondamentale per Macron e i suoi predecessori e che è da sempre uno dei pilastri della diplomazia economica e politica dell’Eliseo.

Ma ecco che nello schema francese si rompe qualcosa. Il Cairo, dopo aver acquistato già una fregata Fremm dalla Francia, decide che è arrivato il momento di cambiare. Quella classe di fregate piace eccome al governo di Abdel Fattah al Sisi, ma piace ancora di più la versione italiana. Iniziano le trattative e lentamente si raggiunge l’intesa. Ed è chiaro che per Parigi è uno schiaffo non di poco conto. Non solo perché, come detto, per la Francia è imprescindibile il ruolo dell’industria militare, ma anche perché le navi le aveva già vendute all’Egitto (due sono anche navi d’assalto anfibie in precedenza indirizzate alla Russia ma negate a Mosca per via dell’annessione della Crimea e la condanna della comunità occidentale). Se a questo si aggiunge il fatto che il vantaggio va all’Italia, il quadro è completo e si capisce perché anche i media francesi abbiano iniziato a trattare la questione come di un ulteriore schiaffo egiziano verso la Francia. Lo spiega bene Formiche, che descrive la faccenda riportando le parole de La Tribune, quotidiano francese da sempre molto attento alle dinamiche belliche e che parla di “ironia del destino” e di vendite tra i due Paesi che sembrano “completamente sepolte”.

Vendite che però in Italia qualcuno sembra intenzionato a dissotterrare, specialmente a sinistra. E il governo rischia di traballare su un tema fondamentale, specificamente perché nel frattempo la Turchia si sta armando, in Libia siamo tagliati fuori e Il Cairo può rappresentare un partner imprescindibile, dal gas al fronte di Tripoli. I tentennamenti non piacciono quando un accordo è ormai concluso  e il pericolo esiste. Specie perché l’esecutivo Conte si sente pressato da sinistra. Zingaretti chiede chiarezza, ma qualcuno al Cairo potrebbe leggerlo come un attacco. Luigi Di Maio, prossimo a un viaggio ad Ankara, scrive un post su Facebook in cui ricorda di aver inviato una lettera al ministro degli Esteri egiziano attendendosi un “segnale di svolta sul caso di Giulio Regeni”, “perché il tempo dell’attesa è finito”. Un post che sembra contraddire l’accordo in consiglio dei ministri, come fa notare anche Paolo Grimoldi della Lega che fa notare il cambio di posizione dopo la rivolta della base grillina.

Un avvertimento che non tiene conto di due fattori. Il primo è l’importanza del ruolo del Regno Unito, in cui Regeni lavorava per conto dell’università di Cambridge, e di cui nessuno chiede ancora contezza. Ma soprattutto il rischio di un raffreddamento che possa riportare in auge il nostro rivale parigino, che ora attende con ansia che Roma e Il Cairo rompano su un tema così delicato e che significherebbe perdere un partner per quanto riguarda il gas, l’industria bellica e la Libia. Come ricorda Portale Difesa, “Ankara ha proiettato in Libia, ovvero nel Mediterraneo Centrale, oltre 10.000 miliziani siriani filo-turchi, 300-400 consiglieri (appartenenti in particolare forze speciali ed intelligence), decine di UAV armati, sistemi veicolari KORAL per la guerra elettronica ed una fregata a dare copertura contro gli attacchi degli UAV emiratini WING LOONG operanti in supporto alle forze di Haftar”. Se a questo si aggiunge una prossima base militare (forse due) e un inserimento nel mercato del petrolio con l’asse con Tripoli, avere un riequilibrio delle forze in campo potrebbe essere essenziale. Ed è meglio che sia fatto con mezzi prodotti in Italia e non in Francia… sempre che le quinte colonne pro Macron non diano spallate molto pericolose. Del resto non è un mistero che in alcuni settori della sinistra italiana si guardi più all’interesse esterno che a quello interno. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.





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