Mentre la Francia piange la morte del 52esimo soldato morto in combattimento in Mali, crescono ulteriormente le tensioni fra Bamako e Parigi. Il sergente Maxime Blasco, cecchino del 7° battaglione dei chasseurs alpins, è deceduto in operazione il 24 settembre 2021 nella regione di Gossi, in prossimità della frontiera fra il Mali e il Burkina Faso. Decorato tre volte della Croce al Valor Militare con stella di bronzo per l’eroismo dimostrato nel quadro delle operazioni Sangaris e Barkhane in Mali, il sergente Blasco si era già distinto per aver salvato la vita di due suoi commilitoni, intrappolati in un elicottero Gazelle abbattuto dal fuoco nemico. Ferito alla schiena, il sottoufficiale era riuscito a portare in salvo l’equipaggio del Gazelle imbarcandolo su un elicottero tigre sopraggiunto in soccorso. Questo gesto eroico gli era valsa la sua quarta medaglia, una croce al Valor Militare con stella d’argento, consegnatagli direttamente dal Presidente della Repubblica Macron. Blasco però, dispiegato nuovamente in Mali nel quadro di Barkhane, questa volta non è riuscito a tornare a casa. La Francia non piange quindi unicamente la morte di un suo soldato, bensì quella di un eroe nazionale che ha dedicato tutta la sua vita militare alla stabilizzazione del Mali e del Sahel. Un simbolo in somma dell’impegno francese in quel teatro.
Il duro affondo del Mali
Se la notizia di un possibile contratto fra il governo del Mali e la Pmc russa Wagner Group ha creato non pochi attriti fra Bamako e Parigi, le parole del primo ministro del Mali, Choguel Kokalla Maiga, hanno gettato ulteriore benzina sul fuoco. Si legge infatti nella trascrizione del suo discorso del 25 settembre 2021, pronunciato davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che “la situazione del paese non è affatto migliorata, nonostante l’appoggio internazionale e la presenza sul nostro suolo della missione di pace delle Nazioni Unite in Mali (Minusma) e delle forze internazionali: l’operazione francese Barkhane, la task force europea Takuba e la Forza Congiunta del G5 Sahel”. Sostanzialmente Maiga sembra sconfessare la narrativa secondo cui la postura di peace keeping robusto, adottata in primo luogo dai francesi, avrebbe condotto ad un rapido miglioramento delle condizioni di sicurezza in Mali.
Maiga, riferendosi alla notizia di una trasformazione dell’impegno francese e di una prossima fine di Barkhane, prosegue poi sostenendo che “i principi di consultazione e concertazione che dovrebbero essere la regola fra partner privilegiati non sono stati osservati a monte della decisione presa dal governo francese”. Aggiunge poi che “la nuova situazione nata dalla fine di Barkhane lascia il Mali davanti ad un fatto compiuto, esponendolo ad una sorta di abbandono in volo. Questo ci porta ad esplorare nuove vie e mezzi per meglio garantire la nostra sicurezza in autonomia o con altri partner, di modo da colmare il vuoto che la fine di Barkhane creerà in particolare nel nord del paese”. In altre parole, i crescenti rapporti fra il Mali e la Russia sarebbero una conseguenza del ritiro delle truppe deciso unilateralmente da Parigi. Conviene però ricordare che il potente ministro della Difesa maliano, Sadio Camara, si è formato in Russia e lo stesso premier si è laureato presso l’istituto di telecomunicazioni di Mosca. Il discorso di Maiga si conclude poi facendo riferimento alle prossime elezioni che dovrà affrontare il paese, previste per febbraio prossimo. Secondo il primo ministro il governo si impegnerà a rispettare le date impartite, ma sarà necessario intraprendere delle riforme “coraggiose” prima di andare alle urne. Quest’ultima dichiarazione si potrebbe quindi intendere come un avvertimento: non è detto che il paese sia pronto per un ritorno dei civili al potere entro febbraio del 2023.
La risposta di Parigi
La risposta della Francia non si è fatta attendere: la ministra delle Forze armate Florence Parly taccia le accuse di abbandono del Mali come “indecenti” e “inaccettabili” ed equivarrebbero, a suo dire, a calpestare il sangue versato dai soldati francesi. Secondo il governo francese, ci sarebbero ipocrisia e malafede dietro le parole del primo ministro maliano, che sarebbe interessato a concludere un accordo con Wagner per non rispettare gli accordi presi con la comunità internazionale in merito alle prossime elezioni. In effetti, se il governo maliano continua a smentire qualsiasi rapporto con il gruppo Wagner, il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, poco prima del discorso di Maiga alle Nazioni Unite, aveva confermato in una conferenza stampa che il governo maliano si era effettivamente rivolto a una Pmc russa.
La fine dell’operazione Barkhane non equivarrebbe però al precipitoso ritiro degli Usa dall’Afganistan. Si tratterrebbe infatti non di un ritiro ma di una trasformazione dell’impegno francese, concordato in anticipo con i partner del G5 Sahel (fra cui figura anche il Mali) e gli altri attori internazionali coinvolti. La presenza delle truppe francesi del Sahel si ridurrebbe infatti del 40%, passando da 5100 uomini a 2500-3000, a fronte però di un irrobustimento di Minsuma, delle forze congiunte del G5 Sahel (FC-G5S) e della task-force europea Takuba. Le basi francesi nel nord del Mali, a Timbuktu, Tessalit e Kidal verrebbero quindi abbandonate ma aumenterebbe la mobilità delle truppe, in particolare grazie al potenziale di dispiegamento rapido della task-force Takuba.
Sino ad ora la presenza francese in Mali si era strutturata attorno al principio delle 3 d: diplomazia, difesa e sviluppo (développement in francese). Ora Parigi vorrebbe riorientare il suo sforzo in chiave antiterroristica evitando di cimentarsi in uno “state-building” dalla durata potenzialmente infinita come nel caso degli Usa in Afghanistan. La chiave di volta di questa nuova postura sarebbe quindi un rinnovato multilateralismo europeo (Task-force Takuba) e Africano (FC-G5S), lasciando alle Nazioni Unite (Minusma) il gravoso compito di puntellare un Mali indebolito, tra le altre cose, da ben due colpi di stato nell’arco di otto mesi.
Il risico delle missioni internazionali
Nel progetto francese per il Mali non c’è quindi spazio per la Russia e i suoi contractors. Tanto più che per Parigi il Mali rappresenta una sorta di banco di prova per un nuovo modello europeo di difesa a guida francese. Ad oggi in Mali coesistono 5 missioni multinazionali: a fianco delle operazioni Barkhane (a guida francese ma con il supporto di inglesi e danesi), Eutm (European training mission), Minsuma e FC-G5S, si è aggiunta più recentemente la task-force Takuba. Se le relazioni fra queste diverse operazioni talvolta risultano problematiche si tratta comunque di un modello di supporto alla pace che coinvolge numerosi attori con obiettivi diversi ma al contempo parzialmente sovrapponibili. La missione Eutm è definita come non-esecutiva, poiché si occupa di formare l’esercito maliano (Forces Armés Maliennes, Fama).
Gli 11.953 uomini dispiegati nel quadro di Minusma hanno invece una funzione esecutiva, poiché conducono operazioni di stabilizzazione in cooperazione con l’esercito maliano. Si tratta della missione Onu attualmente in corso più rischiosa, ed è al quinto posto per numero di morti nella storia delle missioni di pace Onu. I 5000 uomini della Force Conjointe du G5 Sahel (FC-G6S) sono invece autorizzati da un mandato delle Nazioni Unite a condurre operazioni di antiterrorismo e di lotta al crimine organizzato transazionale e al traffico di esseri umani. Se il numero di soldati francesi dovesse essere ridotto della metà con la fine di Barkhane, rimarrebbero comunque 2500 uomini, più il personale della TF-Takuba, impegnati nella stabilizzazione del Sahel.
Lo sforzo diplomatico, economico e militare fatto da Parigi per costruire un intervento multilaterale in Mali non sembra quindi suggerire una volontà di ritiro da quel contesto, anche perché questo equivarrebbe a perdere una regione chiave nella sfera di influenza francese. La crescente insoddisfazione popolare verso il governo dei militari e verso la presenza di truppe straniere in Mali e la malcelata volontà del governo di rimandare le elezioni oltre febbraio 2023 sembrano invece giustificare il ricorso ai contractors russi. Più economici rispetto ad altre Pmc, meno attenti al rispetto dei diritti dell’uomo e noncuranti rispetto alla natura del regime politico che supportano, i contractors del gruppo Wagner paiono infatti gli alleati ideali di una giunta militare che si rifiuta di cedere il potere ai civili.