Emmanuel Macron fino a pochi giorni fa sembrava avere la rielezione all’Eliseo in tasca, premiato dal vento in poppa di sondaggi che lo davano sicuro vincitore del primo turno delle presidenziali del 10 aprile e in vantaggio contro qualsiasi sfidante a un eventuale ballottaggio del 24 aprile. Ebbene, gli ultimi sondaggi consolidano un trend chiaro: da un lato, Macron ha ora in Marine Le Pen, sfidante al ballottaggio del 2017, l’avversaria più quotata. E dall’altro la schiacciante vittoria di cinque anni fa contro la leader del Rassemblement National (66% contro 34%) non appare più possibile.

Le ultime settimane hanno segnato una svolta nella campagna elettorale. E diversi elementi stanno facendo sì che Marine Le Pen abbia eroso il margine con il capo di Stato in carica.

In primo luogo, sono cambiati i focus dell’attenzione dell’opinione pubblica. Macron nelle prime settimane della guerra russo-ucraina ha promosso un’agenda politica fortemente rivolta al contesto internazionale ma, nel frattempo, il contesto politico-economico interno è stato minacciato da carovita, inflazione, insicurezza sociale. Il governo ha promosso una manovra anti-inflazione sulle bollette, ma l’insicurezza regna. E in quest’ottica la Le Pen ha sfruttato l’assist della situazione di crisi per smarcarsi dalle accuse di sintonie con Vladimir Putin e attaccare a testa bassa Macron su un’agenda politico-economica ritenuta eccessivamente restrittiva per i francesi. Sotto accusa, in particolar modo, la proposta di alzare da 62 a 65 anni l’età pensionabile.

In secondo luogo, la Le Pen ha consolidato la sua figura come rappresentante della destra in una forma più trasversale rispetto a quella del 2017. Il fatto che Macron, con i suoi richiami alla figura del generale De Gaulle e la sua chiara identificazione come figura capace di guardare più al centrodestra che al centrosinistra, abbia di fatto schiacciato la candidatura della gollista Valerie Pécresse ha posto il terzo uomo di una destra divisa, Eric Zemmour, di fronte alla necessità di una scelta. Ebbene, il 30 marzo scorso Eric Zemmour ha aperto a una riconciliazione con la candidata del Rassemblement National, che aveva definito una “socialista” per il suo programma economico. Zemmour ha rivendicato l’ipotesi di un fronte comune in caso di suo accesso al ballottaggio, ma dati i sondaggi che lo vedono tra il 10 e l’11 per cento è parsa una chiara antifona: si è pronti a lavorare su un terreno comune. Interessante la valutazione di Zemmour sulla complementarietà dei due elettorati dei candidati: “il mio elettorato è composto da fillonisti e classi popolari, i suoi elettori sono in maggioranza operai e piccoli impiegati”. Del resto, come ha scritto il professor Gennaro Malgeri su Formiche, Zemmour più che in vista dell’Eliseo pare agire più in vista del consolidamento “del suo partito in costruzione che vuol fare entrare all’Assemblea nazionale nelle elezioni di maggio, che delle presidenziali” e dunque un cartello delle destre in vista elezioni parlamentari può apparire una strategia operativamente non da scartare.



Il terzo punto da non sottovalutare è l’insicurezza sociale sulla tenuta dello Stato in situazioni di crisi aperta dall’esplosione delle proteste in Corsica. Una potenziale bomba per il centralismo giacobino dello Stato francese che aggiunge una coda di rischio sulla credibilità di Macron.

Vi è poi un ultimo fattore da tenere in considerazione: Macron è stato bombardato sul tema delle politiche sociali, economiche e di risposta alle domande più profonde della società francese anche dal redivivo Jean-Luc Mélenchon, che dall’estrema sinistra ha attaccato il presidente, come sottolinea il Financial Times, sulla crisi climatica, sulle risposte alla recessione da Covid, sulla visione per il futuro. E in quest’ottica Mélenchon sta creando un problema ulteriore: “mobiltiando l’elettorato giovanile”, suo vero punto di forza, “sta creando agitazione in una fascia di votanti tra i quali il 35% era pronto all’astensione”, aprendo alla possibilità che sul fronte della critica al presidente si possa, anche in minima parte, verificare ciò che nel 2017 non era scattato. E cioè una sovrapposizione parziale tra i votanti di Mélenchon al primo turno e quelli della Le Pen al ballottaggio in chiave anti-Macron. Questo perchè il sostegno elettorale odierno al tribuno del partito La France Insoumise, terzo nelle intenzioni di voto al 15,5%, è strutturalmente molto diverso da quello del 2017, in cui prevalevano votanti ideologizzati e orientati a sinistra, e decisamente più liquido.

Nella serata del 2 aprile Macron, nel suo comizio finale di campagna elettorale a Parigi, ha promosso una strategia volta a gestire il rischio di una rimonta lepenista attaccando frontalmente, per la prima volta, l’estrema destra.  Gli spalti del Défense Arena di Nanterre, grande palazzetto dello sport e sala da concerti alle porte di Parigi, hanno accolto 35mila sostenitori del presidente. Macron ha chiamato i suoi alla “mobilitazione generale”, rivolgendo l’appello a tutti quelli che vogliono unirsi ora, “dai gollisti ai socialdemocratici, fino agli ecologisti che ancora non l’hanno fatto”. Il finale è tutto per le estreme: quelli che predicano il “grande nanismo” della Francia (riferimento al polemista Eric Zemmour e al suo sostegno alla screditata teoria della “grande sostituzione”), a chi predica odio e “comunitarismo”, contro “la forza tranquilla della fratellanza”. Un attacco diretto e incisivo che testimonia un timore profondo: l’Eliseo è di nuovo contendibile. Macron resta il grande favorito ma non può dormire sonni tranquilli.

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