Gli inglesi utilizzano il concetto di “elefante nella stanza”, cioè quell’elemento enorme, assolutamente evidente e impossibile da non vedere – come appunto potrebbe essere un pachiderma in un locale – e che pure viene palesemente ignorato.
La crisi migratoria nella campagna elettorale italiana e tutte le conseguenze che essa comporta in termini sociali, economici e di sicurezza, è ormai una cosa risaputa. Eppure, anche per quella che ormai non è più un’emergenza ma una costante, continuano a esserci molteplici “elefanti nella stanza” che si tendono a minimizzare o addirittura ignorare. Non solo per quanto riguarda gli effetti, ma anche e soprattutto per le cause. Cause che non sono soltanto legate alle condizioni economiche dei Paesi da cui partono i flussi migratori e attraverso cui transitano le carovane di disperazione dirette verso l’Europa, ma anche a quelle potenze che sono ormai in pianta stabile nelle aree coinvolte da questo esodo e che inevitabilmente incidono su di esso.
L’Africa, dal Sahel alla sua parte settentrionale (in particolare la Libia) è un enorme laboratorio geopolitico in cui la contesa è estremamente ampia. L’Italia, Paese di confine con questa immensa regione votata al caos e, purtroppo, alla violenza, ha cercato di evitare di dipendere dalle scelte altrui. Ma la complessità della partita, unita a drammatici errori strategici e tattici, ha spesso condotto Roma a una condizione di anonimato o di sudditanza rispetto alle decisioni di altri governi. E il rischio è che a questo punto della partita sia difficile provare a risalire la china per rivoluzionare quella che appare come una situazione ormai cristallizzata: con altri Paesi che hanno in mano non solo le risorse di quelle regioni in conflitto, ma anche le capacità politico che di ramificazione in quei territori per incidere e monitorare il flusso dei migranti.
Repubblica, in un articolo di oggi, ha parlato della possibilità che la Russia, attraverso la compagnia privata Wagner inserita in Libia, possa avere un ruolo fondamentale nel mettere sotto pressione l’Italia con le partenza dei barconi dalla Cirenaica. Qui, nella parte orientale della Libia al confine con l’Egitto, i contractor di Vladimir Putin sono una presenza più o meno costante da diversi anni e da tempo gli Stati Uniti hanno lanciato l’allarme su come questo possa incidere nella risoluzione del conflitto tra le varie fazioni del Paese nordafricano. Ma la presenza dei mercenari russi in Libia è solo uno degli elementi che aiutano a capire l’enorme complessità della partita africana per l’Italia. Se infatti la Russia ha da tempo messo gli occhi sulla parte orientale della Libia, sostenendo anche di fatto la sopravvivenza del generale Haftar, non va dimenticato che la stessa Mosca è ormai sempre più presente nel Sahel, in particolare in Mali, dove ha sfruttato errori e ostilità di opinione pubblica e governi o militari locali contro le antiche forze coloniali europee. La Russia, in questo momento, è riuscita a creare un vero e proprio arco che unisce i conflitti del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale.
Ma se è vero che Mosca può avere un peso nella regione, è altrettanto vero che parlare del Cremlino come protagonista o come regista della crisi migratoria rischia di essere una visione parziale. Perché negli ultimi anni è abbastanza evidente che moti Paesi siano riusciti a costruire una rete di interessi in tutto il continente africano e l’Italia in qualche modo appare come oggetto e non soggetto attivo di questo fenomeno. Basti pensare alla Turchia, Paese con cui l’Italia ha negli ultimi tempi blindato i propri rapporti anche grazie all’ultimo viaggio del premier Mario Draghi ad Ankara.
Recep Tayyip Erdogan ha saputo sfruttare le stesse identiche dinamiche utilizzate da Mosca per penetrare in diversi territori africani e in particolare in Libia e creare in questo modo le premesse per un controllo profondo della Turchia sulla Tripolitania, la parte occidentale del Paese. Proprio nella stessa area in cui l’Italia ha sempre avuto un peso e maggiori possibilità di inserimento. Per diverso tempo, i rapporti tra Ankara e Roma si sono arenati proprio per le divergenze sul fronte libico, e in questa ultima fase risulta abbastanza evidente come la partita per il futuro del Paese sia stata oggetto di discussione tra l’Italia e la Mezzaluna. Non solo, Erdogan ha anche accelerato l’inserimento turco a sud della Libia con una maggiore coinvolgimento in Sahel e nelle aree centrali dell’Africa, creando anche qui le premesse per un evidente ruolo della Mezzaluna nel complesso meccanismo del controllo dei flussi migratori.
A questi si devono poi aggiungere tutti i Paesi che nel corso di questa delicata fase di transizione geopolitica hanno avuto o puntano a ottenere un ruolo di primo piano nel “Grande gioco” africano. La Francia, che per anni ha avuto un pieno controllo sul Sahel grazie a migliaia di soldati impegnati sul campo, si è vista strappare il Mali da una giunta militare legata poi alla Russia. Ma questo non deve far dimenticare la grandiosa rete di interessi di Parigi in tutta la regione con una serie di ramificazioni che vanno dalle materie prime all’economia fino alla politica e all’intelligence locale. Emmanuel Macron per anni ha cercato di limitare il coinvolgimento europeo in quell’area consapevole che essa dovesse rimanere appannaggio dell’Esagono: poi, l’incapacità di poter mantenere in piedi un sistema così articolo e foriero di perdite, ha fatto sì che Parigi abbia optato per un’apertura europea. Oltre alla Francia, devono poi essere ricordate le potenze arabe, in particolare ora gli Emirati Arabi Uniti, come spiegato anche da Mario Giro su Domani, che hanno assunto un ruolo sempre più preminente nello scacchiere africano e che possono contare su un enorme flusso di denaro da poter utilizzare sia per gli investimenti sia come tipica arma di “soft power” verso Paesi poveri, culturalmente non troppo distanti, e fortemente desiderosi di avere nuovi sponsor. Infine, un ruolo lo ha anche la Cina, che non va dimenticato che in questa fase di transizione geopolitica africana ha strappato gradualmente posizioni di forza diventando un partner essenziale di tutti i Paesi della regione.
È chiaro dunque che considerare un solo Paese come chiave di lettura della crisi dei migranti sia errato. Ma anzi ricorda ancora una volta come la perdita di posizione dell’Italia nello scacchiere africano – coincidente con il disinteresse dalla Nato e dell’Unione europea per il “fronte sud” – abbia condotto a questo risultato: oggi non è Roma ad avere un ruolo effettivo nella gestione di un meccanismo geopolitico di cui è sicuramente vittima. E in campagna elettorale può avere sì, un peso.