Il “no” che è diventato poi “nì” di Recep Tayyip Erdogan all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato ha provocato una delle prime vere scosse all’interno della Nato. Frasi il cui tiro è stato corretto nelle ore successive per evitare una vera e propria frattura all’interno del blocco euroatlantico, ma che in ogni caso hanno sortito l’effetto desiderato: la Turchia ha fatto capire di voler trattare sull’adesione di Finlandia e Svezia, lasciando intendere che il suo benestare arriverà non senza chiedere qualcosa in cambio.

Difficile dire se la Turchia abbia effettivamente il potere negoziale per imporsi in modo così netto su un’Alleanza che, a partire da Washington, ha tutto l’interesse a far entrare i due Stati scandinavi. Ankara ha spesso fatto sfoggio di una forza maggiore di quella che realmente detiene solo per far capire di considerarsi (e voler essere considerata) una potenza decisiva nel panorama europeo e atlantico. È però anche vero che l’unanimità richiesta dalle regole Nato rappresenta indubbiamente un’arma a favore di Erdogan. E per questo non è da sottovalutare l’ipotesi che la Turchia punti a rallentare il processo di adesione mostrando di avere in mano il gioco delle trattative e chiedendo una serie di risposte positive alle sue richieste.

Il sostengo scandinavo ai curdi

In base alle dichiarazioni rilasciate dalle autorità turche, il primo obiettivo del governo anatolico è far sì che i due Paesi in via di adesione, in particolare la Svezia, si sgancino completamente dal sostegno al Pkk. Il ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu lo ha ribadito anche nella riunione Nato a Berlino dicendo che i due Paesi “devono fermare il sostegno ai gruppi terroristici”. Per Erdogan è un tema effettivamente fondamentale visto che considera il partito dei lavori curdi un’organizzazione terroristica e che contro di esso conduce una vera e propria guerra. Come ha detto ad Adnkronos Carlo Marsili, ex ambasciatore italiano ad Ankara, il governo turco cercherà di trattare soprattutto con la Svezia, riguardo la posizione del Paese scandinavo riguardo Pkk, gulenisti e di “una serie di personaggi che la Turchia ritiene terroristi”.

“È difficile che la Svezia cambi linea” aggiunge Marsili, “ma la trattativa ci sarà. La Turchia, grazie al diritto di veto, ha in questo momento una posizione di forza che non la rende simpatica agli altri, favorevoli all’ingresso dei due Paesi. Ma le riserve turche peseranno in qualche modo”. Stoccolma potrebbe procede a un allentamento di questi legami per evitare tensioni in questa delicata fase di ingresso. Legami storici, non certo degli ultimi anni. E per Erdogan sarebbe comunque una vittoria a livello politico da spendere anche in chiave interna. Perché il consenso elettorale resta una delle chiavi per comprendere alcune delle più ostentate mosse del Sultano.

L’occhio è rivolto anche agli Usa in Siria

Sempre con riferimento ai curdi, c’è un altro problema palesato proprio da Cavusoglu nelle ore in cui Erdogan rumoreggiava sull’allargamento dei Paesi membri della Nato. Poco prima delle dichiarazioni del presidente, il capo della diplomazia turca ha posto l’accento sul supporto degli Stati Uniti alle milizie curde in Siria, le Ypg. Ciò che ha scatenato le ire di Ankara è il fatto che i territori controllati da queste forze siano stati esclusi, per alcuni settori economici, dalle sanzioni imposte con il Caesar Act, provvedimento statunitense che blocca investimenti e rapporti commerciali in Siria come condanna contro il sistema di potere di Bashar al Assad.

La decisione Usa di evitare che le sanzioni colpiscano i territori in mano alle Ypg, alleati occidentali contro Daesh ma che Ankara ritiene di fatto la milizia armata siriana del Pkk, è per la Turchia un problema. E proprio per questo, non va sottovalutata l’ipotesi che Erdogan stia alzando il tiro anche per chiedere a Joe Biden un cambio di rotta sul sostegno ai curdi nell’ottica di un riequilibrio delle forze in Siria. Paese dove, tra l’altro, è sempre ben presente la Russia.

Tra F-35 e F-16

Con gli Stati Uniti, del resto, i problemi non mancano. La Turchia è stata estromessa dal programma F-35 per la sua politica troppo aperta nei riguardi della Russia, che a Washington piace. Ad Ankara è stato chiesto di interrompere l’accordo sui sistemi S-400 russi come pedina di scambio, ma per ora dalla Sublime Porta è arrivata una risposta negativa con la precisazione che quei sistemi non sono mai stati attivati. La questione non è certo secondaria, visto che si tratta di un Paese Nato. Ma è anche vero che l’aviazione e la marina anatoliche hanno subito un danno di immagine e strategico non minimo dall’essere esclusi dal programma.

In ballo tra Washington e Ankara c’è poi l’acquisto di 40 caccia F-16 della Lockheed Martin, su cui invece la trattativa appare avviata. Come riportava l’agenzia Reuters lo scorso mese, il Dipartimento di Stato Usa ha scritto una lettera al Congresso nella quale definiva la possibile vendita di caccia F-16 alle forze turche “in linea con gli interessi di sicurezza nazionale degli Stati Uniti” e utile per “l’unità a lungo termine della Nato”. La politica statunitense finora non si è espressa in modo netto né in un senso né nell’altro, ma è chiaro che in un momento in cui la Turchia può applicare un potere di veto in una trattativa così complessa e importante, è possibile che da Oltreoceano arrivi qualche garanzia in favore della Turchia.

Del resto, dall’inizio della guerra in Ucraina, Ankara ha mostrato di essere un alleato molto prezioso degli Stati Uniti. Il suo canale di dialogo con la Russia, per quanto poco apprezzato dal mondo neo-con Usa e dai segmenti più intransigenti dell’Alleanza Atlantica, è servito come termometro delle richieste di Mosca. Inoltre, l’immagine di Erdogan è sensibilmente migliorata nel momento in cui la propaganda ucraina ha continuamente rilanciato le immagini dei letali droni di fabbricazione turca Bayraktar contro le forze russe. Quei velivoli sono stati un elemento fondamentale per la resistenza di Kiev, e questo è un fattore che pesa anche nella percezione della Turchia in ambito Nato. Soprattutto in una fase in cui Ankara mostra di poter essere utile non solo nello sblocco della situazione di Mariupol, ma anche come mediatrice in un possibile accordo tra ucraini e russi.

Gas e Libia: il dialogo continuo

Restano poi almeno altri due nodi strategici che possono dividere, come unire, Stati Uniti e Turchia, e che riguardano in parte anche la Russia. Il primo è il fattore energetico: Erdogan ha fatto capire di volere opporsi a ogni progetto infrastrutturale che bypassi il territorio turco e cerca in ogni modo di essere la principale porta del gas verso l’Europa. Anche il gas russo arriva in Turca e passa attraverso l’Anatolia, e il governo in questo momento non può permettersi di perdere questa posizione di forza in un settore così delicato degli attuali equilibri strategici. Garanzie non possono arrivare in modo esplicito, visto che riguarderebbero altri partner Usa non meno importanti. Tuttavia, rassicurazione possono esser utili per sbloccare la situazione.

Infine, da non sottovalutare il tema della Libia. La Turchia, ricordiamo, è uno dei Paesi più influenti del Paese nordafricano e si è radicato dia a livello politico che militare specialmente nell’area della Tripolitania. Dall’altra parte, ovvero in Cirenaica, il Pentagono e i comandi atlantici hanno più volte posto l’accento sull’infiltrazione dei contractors russi della Wagner. La presenza russa in Libia è meno rilevante rispetto ad altri Paesi, ma è uno scacchiere che non può essere sottovalutato. Erdogan ha da tempo blindato il suo legame con Tripoli. E in questo particolare condominio con Vladimir Putin replicato in Libia, Siria, Caucaso e Mar Nero, il suo supporto non è irrilevante.