Kevin McCarthy, alla fine, ce l’ha fatta: nella notte italiana è stato eletto Speaker della Camera dei Rappresentanti Usa e terza carica dello Stato alla quindicesima votazione. Superato, dunque, il veto degli esponenti di destra del Partito Repubblicano che mettevano in dubbio la credibilità del deputato della California in quanto ex sostenitore di Donald Trump che ha criticato l’ala più populista della formazione per le sue prese di posizione dopo le elezioni del 2020 e, soprattutto, i fatti di Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Buona parte dei ventuno ultraconservatori ribelli sono stati conquistati alla causa di McCarthy alla dodicesima e tredicesima votazione, ma ci è voluta la quindicesima chiamata perché l’ex leader della minoranza repubblicana conquistasse la carica di Speaker, succedendo a Nancy Pelosi. E anche in questo caso, si è trattato di un successo non completo. Su 222 voti disponibili, anche al quindicesimo scrutinio McCarthy si è fermato a 216 consensi a suo favore. L’elezione è stata legata al fatto che quattro legislatori che avevano votato nomi terzi per fare ostruzione sono passati a dichiararsi, in aula, presenti non votanti. La maggioranza necessaria per vincere la contesa è così scesa da 218 a 214 voti. Solo quattro i voti di scarto di McCarthy sul candidato di bandiera democratico, Hakeem Jeffries, supportato da tutti e 212 i voti del Partito dell’Asinello alla Camera.

Il Partito Repubblicano ha visto un braccio di ferro interno che si è scaricato su McCarthy, il quale nella corsa alla sua elezione ha pagato le critiche subite dopo la vittoria azzoppata alle Midterm e si è trovato di fronte a un’anticipazione di quanto sarà difficile per lui controllare la Camera in funzione di opposizione a Joe Biden nei prossimi due anni. Il New York Times parla di una fazione di destra del Partito Repubblicano “indisciplinata”, decisa a “tagliare la spesa” pubblica per sabotare Joe Biden e pronta a “interrompere gli affari legislativi a Washington” a cui McCarthy ha dovuto fare concessioni, aggiungendo poi: “La lotta per la presidenza che ha paralizzato la Camera prima ancora che aprisse la sua sessione ha suggerito che compiti di base come l’approvazione di leggi di finanziamento del governo o il finanziamento del debito federale provocheranno lotte epiche nei prossimi due anni”.

Il danno d’immagine per il Partito Repubblicano resta grave. Anche e soprattutto perché a due anni dai fatti del 6 gennaio e dagli assalti a Capitol Hill l’anniversario degli eventi era giunto senza che il veto imposto da deputati che negano, come i fautori degli assalti, la correttezza della vittoria di Biden su Trump fosse ancora stato rimosso. Dopo uno stallo che si prolungava con una durata senza precedenti dal 1859 ora il Partito Repubblicano è deciso a fare della Camera la sua platea anti-Biden e a concedere spazi in commissione anche ai suoi membri di destra più spinta.

Lo stallo in cui McCarthy si è trovato lo ha portato a rischiare più volte di bruciarsi e ha spinto lo stesso Trump a fare pressione sui suoi sostenitori più decisi in vista del via libera all’elezione a Speaker. Difficile capire se ci siano veri vincitori in questa vicenda complessa. La realtà dei fatti parla dell’ennesima dimostrazione di polarizzazione interna a una singola formazione legata al concetto che una formazione di opposizione ha della Camera da lei controllata: quello di uno strumento di censura dell’amministrazione. Il rischio è che si riproponga ciò che i Democratici promossero dopo le Midterm 2018, facendo della Camera la loro platea anti-Trump e arrivando a promuovere come iniziativa di partito una procedura d’impeachment a dir poco avventata. Scelte, queste, che mettono il Paese di fronte ai rischi della tribalizzazione politica ormai avviata da cui l’America è assediata.

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