Fin dalla campagna elettorale che lo aveva visto sfidarsi contro Donald Trump, le direttrici della politica estera di Joe Biden non hanno mai disegnato un percorso omogeneo e coerente: dalla guerra economica con la Cina, passando per il disimpegno in Medio Oriente, fino al disastroso ritiro dall’Afghanistan, la postura internazionale di Biden sembra essere stata continuamente trascinata dagli eventi e dalle contingenze che lo hanno spesso costretto a comportarsi da comandante in capo degli Stati Uniti. Su molti altri dossier ha poi ereditato in parte l’aura di Barack Obama, ma di certo non l’allure, impantanandosi su dossier caldi come i temi morali, l’ambiente o l’immigrazione. Attesa a lungo come per tutti i suoi predecessori, forse è giunta la svolta che potrebbe dare un ordine coerente ad una politica estera che rischia di finire nelle secche, assieme al sogno americano ormai claudicante.

Jake Sullivan e la nuova politica estera per Biden

A restituire questo quadro coerente uno dei più fidati uomini della Camelot bideniana: il Consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan. Lo scorso 27 aprile quest’ultimo rilasciava alcune sue dichiarazioni sul rinnovo della leadership economica americana presso la Brookings Institution, il noto think tank con sede a Washington. Sullivan ha sottolineato “l’impegno del presidente Biden per integrare la politica estera e la politica interna. A seguire, il discorso del Consigliere è stata una lunga autocelebrazione che è passata per la missione di pace e prosperità svolta dagli Stati Uniti dal Dopoguerra ad oggi: ma è un passaggio a delineare con precisione la linea per il futuro. Si tratta di una lunga perifrasi sulla classe media “scossa” dalla crisi finanziarie e un’economia globale che “ha lasciato indietro molti americani”. Una visione economica delle relazioni estere Usa che sa di “politica estera per la classe media”: uno stile che lascia trapelare che il futuro del Dipartimento di Stato non si giocherà più tra falchi e colombe ma sarà all’insegna del “Buy America”: ne è certo una versione ammorbidita, che non vuole sfociare nel solipsistico America first, ma che ha perso il tocco di grand design nel senso esistenziale del termine. Non c’è un paniere di valori primari ai quali ispirarsi, solo estremo pragmatismo: è la vecchia dottrina dell’interesse nazionale di Hans Morgenthau, si potrebbe pensare, ma invece è molto di più, anzi molto meno.

Una dottrina pragmatica con zero ideali

Una svolta, si direbbe. Eppure perfino i più grandi realisti del passato hanno dotato la propria dottrina di un qualche corredo di valori, che l’eccesso di pragmatismo delle parole di Sullivan neutralizza con una sfilza di eventi che ritraggono un’America sulla difensiva: la pandemia che ha fatto emergere le fragilità di un paese e i suoi cleavage, l’invasione russa che ha evidenziato i rischi di un’eccessiva dipendenza. Parla di strategia industriale Sullivan, di “catene di approvvigionamento resilienti”, di buon governo, di capitale e beni pubblici. E ancora, di un’America costretta a rimaneggiare i vecchi presupposti per sfide nuove che depauperano decenni di retorica progressista. Nella nuova dottrina internazionale americana sarebbero almeno quattro le sfide che Biden avrebbe affrontato in questi due anni: la visione dell’investimento pubblico svanita, che ha atrofizzato settori come quello dei semiconduttori e ha spostato le catene di approvvigionamento all’estero; un adattamento ad un nuovo equilibrio definito dalla competizione di sicurezza ove l’integrazione economica ha fallito la speranza di tradursi in integrazione democratica; l’accelerazione della crisi climatica che ha reso urgente più che mai la transizione energetica: quando “sento clima sento posti di lavoro” ama ripetere il presidente Usa. Infine, solo a termine delle quattro sfide che sembrano evocare pallidamente le 4 libertà rooseveltiane, è citata la disuguaglianza e i danni alla democrazia. L’elenco, già da solo, spiega la rivoluzione copernicana in corso.

Una politica estera “per la classe media”

Secondo Sullivan, Biden sapeva bene che al momento del suo arrivo alla Casa Bianca la sfida principale sarebbe stata ripristinare una “mentalità economica” che sostenesse la costruzione, spingere sull’abusata resilienza per resistere a disastri e shock geopolitici. “Tutto ciò che abbiamo definito una politica estera per la classe media”, ribadisce Sullivan. Ma può una politica estera essere per? E soprattutto esclusivamente per la classe media, proprio nel momento in cui, in casa, si combatte con la soglia di povertà e per le più basiche libertà civili? Una moderna strategia industriale che parrebbe essere suffragata dai dati economici: Sullivan è anche pronto a precisare che questa non è una svolta isolazionista tantomeno autarchica, ma solo di “sicurezza” circa le catene di approvvigionamento.

Il passaggio più ambiguo del messaggio del braccio destro del presidente Biden riguarda il “perseguiremo senza scusarci la nostra strategia industriale, ma ci impegniamo inequivocabilmente e non lasciare indietro i nostri amici”. Quali saranno i veri “amici” in questa scelta? Europa e Canada sono citati nella nuova dottrina, così come Corea del Sud, Giappone e India, mentre il resto appare più fumoso. E cosa significa “senza scusarci”?. La cooperazione, ad ogni costo, con l’India sembra ancora una volta una sfida complessa, considerando che avrà come materie di base idrogeno e semiconduttori, ma soprattutto che la “scommessa indiana” è fallita più volte nel corso della storia. Sullivan cita Angola, Indonesia, Brasile come punti nevralgici di questa politica industriale che dovranno andare al di là delle tradizionali partnership: ma quanto è vincente affidarsi ancora una volta a realtà tumultuose per l’approvvigionamento energetico, seppur green? Nella stessa ottica si spiega il potenziamento della strategia indo-pacifica, che vede al momento Washington impegnata nella negoziazione con tredici nazioni dell’area per la produzione di energia pulita attraverso l’Indo-Pacific Economic Framework, mobilitando allo stesso tempo miliardi di dollari in economie emergenti. In poche parole, tuona Sullivan, “la politica commerciale deve andare oltre la riduzione delle tariffe” e alla promozione dei diritti dei lavoratori attraverso la diplomazia, strategia che la Casa Bianca promette di svelare nelle prossime settimane.

“Un piccolo cortile di casa e un’alta recinzione”

La strategia annunciata, dunque, mira alla costruzione di “un piccolo cortile e un alta recinzione”, ribatte Sullivan. Un ridimensionamento della presenza Usa nel mondo e una nuova ossessione per l’autoprotezione che pandemia e tumulti geopolitici hanno reso necessaria. La Cina viene citata in questa nuova e caleidoscopica road map come un Paese con il quale va inaugurata una competizione eminentente commerciale da affiancare alla cooperazione su grandi temi come il clima, la sicurezza alimentare e sanitaria, l’energia, azzerando il più possibile le ipotesi dello scontro militare, seppur di teatro. La citazione kennediana della “marea crescente che solleva tutte le barche”, con la quale Sullivan ha chiuso il suo intervento, ha un sapore nettamente domestico: ciò che è buono per i ricchi non è buono per la classe lavoratrice, sostiene il Consigliere, ma soprattutto la nuova idea di relazioni internazionali basata eminentemente sul commercio stabilisce che o si cade o si sta in piedi tutti insieme. Cina compresa.

Una dottrina della paura?

Sullivan, ex enfant prodige, è il vero padre di questa dottrina ed è stato mandato avanti per esporla per il presidente degli Usa. Si tratta di una dottrina estremamente pragmatica ma terribilmente basica, vecchio stile, estremamente realista e prudente, ma prima di qualsivoglia guizzo. Dalle parole della dichiarazione emerge un universo di paure e futuro incerto che annega nella visione pessimistica della storia recente degli Stati Uniti. Per paradosso, si tratta di una strategia fortemente “cinese” che ambisce a creare una Via della Seta made in Usa e promuove l’intervento pubblico su larga scala nell’economia: inutile ricordare quanto questo rischia di contribuire ad assuefare il sistema, bloccando l’innovazione. Per non parlare dell’inflazione sistemica, che affligge la classe media tanto inseguita dallo stesso Biden come ha sottolineato Fareed Zakaria in un suo op-ed sul Washington Post. Che la politica estera degli Stati Uniti, come di ogni nazione del globo, sia mossa dagli interessi economici non deve sorprendere né scandalizzare nessuno. Tuttavia, ciò che ha funzionato per decenni nella lotteria americana è stata l’associazione tra queste esigenze e un’idea di futuro per la quale perfino il ping-pong e il rock furono strumento. Con risultati che oggi sembrano ormai insperabili.

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