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C’è qualcosa di sacro sciolto nell’aria, sembra una sorta di volatile incenso.Al monastero Fo Guang Shan si respira una religiosità quieta e fantastica, fatta di silenzi e meditazioni, orazioni ripetute e sorrisi accennati. Anche se le statue del Buddha assomigliano a buffi personaggi dei cartoni animati giapponesi, con tratti infantili e giocosi, sembra tutto tremendamente serio. Così alle sei meno un quarto del mattino digiuno ti metti rispettosamente in coda dietro i monaci silenti che camminano allineati neanche fossero inglesi alla fermata del bus.Seguendoli entri nella grande sala tappezzata con centinaia di statuine dorate del Buddha seduto con le gambe raccolte. Vieni quasi rapito dalla scena di una sola moltitudine di uomini e donne dal capo rasato e gli abiti svolazzanti – giallo ocra i monaci, grigio piccione le monache – che recitano le preci rivolti alle tre grandi statue del Buddha contornate da candele al led. Sembra una delicata sessione di risveglio muscolare, accompagnata da una musicalità leggera, scandita dal battito di un tamburello e interrotta da un gong che riporta bruscamente alla realtà. È passata mezz’ora ed è l’ora della colazione. Avvolti nello stesso silenzio, sempre in coda, si entra in un padiglione immenso. Per terra scodelle, bacchette e un bicchiere di metallo. Uomini da un lato, donne dall’altro si mangia riso, spinaci, fagioli e porridge. L’unico rumore è il rintocco delle ottocento paia di bacchette. Parlare è vietato. Non distante da Kaohsiung, nella parte sud­ovest dell’isola di Taiwan, a prima vista il Fo Guang Shan pare tutto fuorché un luogo di raccolta spiritualità. Sarà che il nostro immaginario dei monasteri buddhisti è dominato dalle vaghe idee delle austere strutture tibetane. E allora pensiamo a templi di roccia costruiti su erte montane, con le possenti pareti dipinte di rosso cremisi, lo spirito dei tempi incrostato sui muri, la polvere depositata sui tappeti, l’odore del burro di yak incollato su ogni cosa, l’Om Mani Padme Hum registrato nelle orecchie come l’annuncio delle fermate nella metropolitana che si prende ogni mattina. Il tutto immerso in una sorta di ambientazione da riedizione orientale del Nome della rosa.E invece questo posto immenso, che si estende su oltre cento ettari, è tutto fuorché esteticamente spirituale. Per quanto sia immensamente monumentale e a prima vista artificiale, sembra qualcosa a metà tra un parco giochi ispirato alla Cina dei tempi andati e un moderno aeroporto. Abituati come siamo alla patina della storia che nobilita ogni cosa, fa un poco effetto trovarsi nel più grande monastero di Taiwan e scoprire che è una costruzione dannatamente recente. Del resto l’ordine cui appartiene, il Fo Guang Shan, è stato fondato dal venerabile maestro Hsing Yun intorno al 1952. Per cui se l’ordine ha poco più di sessant’anni, questa struttura di anni ne ha ancora meno e l’umidità tropicale non ha ancora corroso e reso a suo modo affascinante l’insieme di palazzi, immense statue, simmetriche pagode e giardini. Fondato nel 1967 a Dashu su un terreno di campagna che fronteggia il fiume Kaoping, il monastero è un po’ il Vaticano del Fo Guang Shan. Nome che tradotto letteralmente ha quella poeticità figurata e melensa tipica del cinese: suona come «montagna di luce del Buddha».Ma ovunque è noto come International Buddhist Progress Society o con il più filosofico buddhismo umanista: uno dei tanti rivoli del buddhismo che enfatizza la meditazione come pratica del cammino verso l’illuminazione. Pratica che si unisce a un altro pilastro, l’amidismo o buddhismo della Terra Pura, che insiste più sulla disciplina spirituale. Ma se nella tradizione del buddhismo Mahayana la disciplina doveva permettere ai seguaci di rinascere dopo la morte entrando nella catena delle reincarnazioni che dovrebbe – si spera – portare all’illuminazione, il buddhismo umanista ha un’accezione ben più terrena. L’illuminazione può avvenire anche su questa terra, non in un remoto paradiso: per cui quotidianamente interpretano la loro missione come un percorso di preparazione alla sua realizzazione. Lo fanno concretamente partecipando alla vita sociale (ma non politica) taiwanese e non solo, visto che hanno quasi 200 monasteri sparsi per il mondo. Puntano sull’educazione – l’ordine ha quattro università – la cultura – posseggono radio, case editrici e giornali – la filantropia – ospedali e orfanotrofi – e la protezione ambientale.Con il suo milione di praticanti Fo Guang Shan è solo una – e nemmeno la maggiore, visto che l’ordine Tzu Chi Gongdehui ne avrebbe quattro milioni – delle declinazioni del buddhismo nella Repubblica di Cina. Buddhismo che poi sarebbe, almeno sulla carta, la religione maggioritaria dell’isola. Ma dire che cosa sia la religione a Taiwan è complesso e sfugge totalmente alla nostra necessità di dare etichette fisse e catalogare ogni cosa. Per le statistiche ufficiali un terzo (in crescita) della popolazione è buddhista, un terzo taoista e un terzo non si esprime. E non perché sia per forza ateo, ma perché definire in maniera univoca quale sia la propria fede a Taiwan non è né semplice né scontato. Tutto si mischia e si sovrappone, uno non esclude l’altro. Nei templi sparsi per le città, che spesso sono le uniche costruzioni che hanno più di settant’anni, si può vedere in sale attigue un Buddha che medita, una statua di Confucio spesso rappresentato solo da una tavoletta, una qualunque divinità mitologica della tradizione cinese venerata con il trasporto e la devozione che si dedica ai Santi patroni nelle nostre province. La più sentita è Mazu o Matsu che dir si voglia, colorata divinità del mare in un’isola di pescatori. A lei è dedicato un pellegrinaggio che dura settimane e mobilita tutta Taiwan. Alle altre divinità ci si rivolge per chiedere protezione, una grazia, un favore, un occhio benevolo per gli affari o la stabilità della coppia. Così la religione tradizionale è tutto un dare e avere, simboleggiato dalle montagne di cartamoneta che vengono bruciate insieme agli incensi in questi templi assai vivi e frequentati in cui i taiwanesi passano spesso e volentieri.Ed è qui che ti fai quell’impressione che Taiwan sia una Cina più Cina. Qualcosa di unico, dove la cultura dell’Impero di mezzo è sopravvissuta all’epoca delle ideologie senza perdere un briciolo dell’eredità millenaria. Una Cina dove Tao e Confucio, filosofia e superstizione, fede e affari si mischiano di continuo. Una Cina dove ancora prosperano gli indovini che si trovano sempre nei pressi dei templi, perché va bene pregare e bruciare incensi, ma meglio non lasciare nulla di intentato. Alcuni scrutano il corpo, traggono indizi dalla forma del naso, dalle linee sulla pianta del piede, della mano, della fronte. Altri si affidano a dadi, bacchette e numeri. Ma siccome questo è anche e soprattutto un Paese iper tecnologico e moderno ecco che all’interno di alcuni templi spuntano macchine simili a immensi jukebox dove metti una moneta, tocchi quattro tasti e in un frullare di colori esce un bigliettino con la tua predizione.Sembra una frasetta da cioccolatino o, se vogliamo rimanere spirituali, un haiku religioso. Accusato di essere un po’ troppo commerciale e di cedere alla spettacolarità – c’è una parte appena finita del monastero, il Buddha Memorial Center, che per dimensioni e magnificenza sembra la replica di un palazzo imperiale cinese sormontato da una statua del Amitabha Buddha alta 108 metri e illuminata da laser colorati -, anche il buddhismo umanista prosegue in questa tradizione sincretica. Così il confucianesimo caro alla tradizione imperiale fa comunque parte della formazione dei monaci. Accanto a ore e ore di meditazione viene data una rilettura buddhista dell’etica confuciana. Per cui tra gli obblighi sociali del praticante c’è anche quello, fondamentale per ogni buon cinese, di portare rispetto ai genitori e agli antenati. Gli stessi che al di là dello stretto di Taiwan, nella Repubblica popolare cinese, sembravano in qualche modo entrati in clandestinità. C’è qualcosa di sacro, a Taiwan.





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