Tra i molteplici effetti della guerra in Ucraina visibili al di fuori del Paese invaso, vi è quello dei rapporti tra governo della Lettonia e popolazione russa: una grossa e ormai radicata minoranza all’interno del Paese baltico.
In questo periodo, come riportato anche da Reuters, Riga ha avviato le procedure per testare la conoscenza della lingua lettone di tutti i cittadini russi tra i 15 e i 75 anni. In migliaia hanno già fatto richiesta di effettuare il test: domanda che deve essere inviata tassativamente entro il primo settembre, pena l’avvio di una procedura di espulsione.
Si tratta, come spiegano le fonti del governo, di una conoscenza linguistica molto semplice, ben diversa rispetto a quella richiesta per test di alto livello o per i colloqui lavorativi. Tuttavia, pur parlando di un esame rudimentale e legato a poche frasi di uso comune, alcuni osservatori hanno criticato la decisione della Lettonia per il pericolo che con essa si vada a intaccare una convivenza fondamentalmente pacifica in cui sono messi a repentaglio i diritti di residenti che ormai da anni, spesso decenni, risiedono nel Paese. Il rischio, infatti, è che con il mancato superamento dell’esame, i cittadini russi siano costretti a lasciare la Lettonia e tornare nel territorio della Federazione russa anche in assenza ormai di legami stabili in quella nazione.
L’equilibrio in questi casi non è semplice, ed è chiaro che la guerra in Ucraina abbia esacerbato una situazione che, specialmente per i nazionalisti lettoni, è sempre stata vista con sospetto. In molte città di confine, i russi hanno vissuto parlando russo, ascoltando radio russe o guardando la televisione di quel Paese. In larga parte sono persone trasferite lì ai tempi dell’Unione sovietica e non se ne sono più andate, senza però destare sospetti sulla loro fedeltà a Riga, oppure che hanno scelto la cittadinanza russa sostanzialmente per motivi economici.
L’invasione scatenata da Vladimir Putin ha messo in dubbio questo equilibrio, apparso già fragile negli anni scorsi per la recrudescenza di alcune spaccature dovute alla pesante eredità dell’Urss e alla difficile condivisione di una memoria storica. E ora che i Paesi baltici hanno rafforzato ulteriormente la loro percezione di pericolo rispetto a Mosca, le popolazioni di origine russa sono ancora di più “osservate speciali“.
In questo senso, si uniscono due diverse esigenze politiche interne agli apparati delle capitali baltiche. Da un lato rilanciare il loro totale distacco dalla Russia anche in termini culturali e nazionalisti, con una forte accentuazione di tutto ciò che rappresenta o ha rappresentato l’identità contraria a Mosca. Dall’altro lato, fare in modo che si le minoranze siano sfruttate da Mosca come già avvenuto in Ucraina. Questo secondo punto è particolarmente sentito da quando il concetto di “Russkiy mir” è stato fatto proprio dal Cremlino per esigenze strategiche e di soft power e utilizzato poi come base ideologica per l’attacco a Kiev.
Dal momento che Mosca guarda con attenzione e sente come propria ogni comunità che in qualche modo si ricollega a essa sotto il profilo etnico, linguistico, religioso o di antica appartenenza territoriale, è evidente che per i governi di Paesi come la Lettonia tutto questo ha un carattere di sicurezza nazionale. Il timore, però, è che queste scelte vengano lette dalle minoranze e dai partiti più radicali che vogliono rappresentarle, non come uno strumento di integrazione, ma di pressione o avversione. Con la conseguenza che si infranga una delicata convivenza che, anche a causa della guerra, può essere drammaticamente colpita nel profondo. Fino a questo momento, infatti, le componenti russe del Paese non sono mai state assalite da sentimenti separatisti, né si percepisce, anche dalle indagini sociali, un desiderio di unirsi alla Federazione. E l’equazione tra russofonia e auspicio di appartenere a Mosca non deve essere considerata necessariamente presente.