Il 94% del campione vede la Nato come una minaccia, il 96% pensa lo stesso degli Stati Uniti. Non è un sondaggio dal campione statistico significativo quello rivelato nei giorni scorsi dal quotidiano turco Yeni Safak, noto per le sue posizioni smaccatamente pro-governative, ma piuttosto il risultato di un rilevamento tra i suoi lettori, alla vigilia del primo incontro ufficiale tra il presidente americano Donald Trump e Recep Tayyip Erdogan.Se è una raffica ad alzo zero sull’imminente incontro a Washington quella partita dalle penne del quotidiano, mai cauto nel prendere posizione, si può però dire con certezza che il punto di vista di Erdogan è riflesso meglio in altri pezzi, pubblicati dall’altrettanto pro-governativo Daily Sabah.La teoria dominante di questi giorni, in certi circoli turchi, sembra essere che Trump stia agendo non di sua volontà, ma piuttosto conformandosi al punto di vista di un paio di uomini dell’amministrazione precedente rimasti in sella, seguendo il pensiero di Obama sul nord della Siria e le milizie curde, convinto da personalità come Brett McGurk, inviato speciale per la Coalizione anti-Isis.La decisione degli Stati Uniti di concedere armi pesanti a Ypg e Ypj, i combattenti curdi legati al Pyd siriano, non è popolare in Turchia ed Erdogan non è da solo nel denunciarla. Uno dei più eminenti quotidiani dell’opposizione, Sozcu, titolava giovedì: “Chiudete Incirlik, non andate negli Stati Uniti”, in riferimento alla base su suolo turco utilizzata non solo da Washington, ma anche dagli alleati della coalizione impegnata contro l’Isis, per far decollare i propri aerei.La netta presa di posizione degli Stati Uniti, disponibili a un ulteriore impegno accanto all’alleanza (Sdf) per lo più composta da curdi attiva nel nord della Siria per l’ultima fase della battaglia su Raqqa, considerata la capitale dello Stato islamico, e persino a mostrare i muscoli al confine, spedendo soldati a pattugliare l’area di frontiera dopo attacchi che hanno messo a repentaglio anche le forze speciali americane, è considerata in Turchia quanto meno controversa. In un Paese in cui la prossimità tra il Pyd e il Pkk è ritenuta una minaccia per l’unità nazionale, questo non è un problema solo del campo pro-Erdogan. Gli elettori dell’Akp e i kemalisti, ai ferri corti su una quantità di altri temi, concordano facilmente su questo punto.La decisione degli Stati Uniti, descritta come “affrettata” da un articolo pubblicato sul Daily Sabah, è stata presa “temendo che Erdogan potesse convincere di persona Trump a cambiare idea”, secondo il punto di vista del quotidiano, parte di un conglomerato i cui legami con il partito di maggioranza sono un segreto di Pulcinella. La Turchia ha a più riprese chiesto di essere considerata per l’operazione su Raqqa, in sostituzione delle forze curde. Un’opzione rigettata dall’amministrazione Trump, che ha portato avanti un piano stabilito prima delle elezioni presidenziali.”L’esercito turco è stato devastato da ripetute purghe e non è nelle condizioni di lanciare un’operazione militare importante fuori dai confini” del Paese, sostiene Howard Eissenstat in un’analisi per il Washington Post, aggiungendo poi che “se pure lo fosse, una campagna con per obiettivo lo Stato islamico sarebbe politicamente dannosa per il governo turco”. Proprio la Turchia ha da poco messo termine a una precedente missione in Siria, Scudo dell’Eufrate, lanciata con gli obiettivi dichiarati di contrastare i jihadisti e controbilanciare l’avanzata delle forze curde, scomode vicine di casa.La differenza d’opinioni tra Trump ed Erdogan è già un primo smacco per Ankara, che prima delle elezioni aveva apertamente sostenuto la candidatura repubblicana, parlando di rapporti difficili con l’amministrazione Obama e sperando in un cambio di passo. Dall’altra parte il sostegno americano al Sdf, da tempo considerato il più valido alleato della coalizione, è anche conseguenza del fatto che fossero disponibili a ingaggiare l’Isis quando Ankara ancora non aveva ancora aperto alle missioni della coalizione Incirlik. Tuttora le autorità turche minacciano regolarmente di chiudere la base agli alleati, tanto che gli Stati Uniti (e la Germania) valutano possibili opzioni alternative.Secondo molti osservatori la sorte delle milizie curde non rappresenta “l’ultimo chiodo nella bara” dei rapporti tra i due Paesi e un qualche genere di accordo si troverà. Le questioni su cui Washington ha voce in capitolo e che ad Ankara stanno a cuore non sono poche. Negli Stati Uniti si trova Fethullah Gulen, predicatore un tempo stretto alleato di Erdogan e che ora è accusato di avere ordito il colpo di Stato fallito nel luglio scorso, di cui i turchi chiedono da tempo l’estradizione. Negli Stati Uniti è sotto processo Reza Zarrab, uomo d’affari turco-iraniano, accusato di avere violato le sanzioni contro Teheran.Nell’incontro a Washington potrebbe venire a galla anche un altro tema. Alla chiusura dell’operazione militare in Siria, Ankara ha lasciato aperta la porta per nuove missioni. L’obiettivo più plausibile: il Sinjar iracheno, dove si trovano uomini legati al Pkk. Già il 25 aprile l’aviazione turca ha colpito sui monti del Kurdistan iracheno, uccidendo anche alcuni combattenti peshmerga dell’alleato Barzani.Al termine del faccia a faccia tra i due presidenti, per i giornalisti non ci sarà l’opportunità di porre domande. Una scelta conveniente per il leader di un Paese sotto accusa per un serie di questioni che riguardano la libertà di stampa, la possibilità di esprimersi liberamente dei partiti d’opposizione e decine di migliaia di arresti – per legami veri o presunti con la rete di Gulen, l’Isis o il Pkk – decisi dopo il fallito colpo di Stato.

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