Recep Tayyip Erdogan sarà ricordato dalla posteriorità come uno dei più lungimiranti statisti che siano mai stati partoriti dal ventre del mondo islamico. In meno di un ventennio, l’ex sindaco di Istanbul è riuscito laddove non ha potuto il suo mentore ed ex primo ministro, Necmettin Erbakan, ovvero scardinare l’impostazione laica ed occidentale della Turchia repubblicana e sopravvivere, e vincere, ai tentativi di opposizione dello stato profondo kemalista.

Nelle ultime settimane, a Istanbul, non è stata combattuta (e vinta) una semplice battaglia politica sul laicismo e sull’identità nazionale, né ha avuto luogo una messinscena elettorale per ottenere consensi; il mondo è stato testimone di una partita in cui la Turchia ha fronteggiato se stessa e la posta in gioco non era la semplice riappropriazione di un simbolo secolarizzato da Mustafa Kemal come segno di rottura con il passato, quanto il futuro di una precisa visione: la riunificazione dell’islam mondiale sotto la bandiera turca.

La rabbia dell’Occidente

Quando il 5 giugno lo Hurriyet Daily News ha annunciato che Erdogan aveva istruito il Consiglio Esecutivo Centrale del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (Akp) affinché elaborasse un piano d’azione per la riconversione in moschea dell’ex cattedrale di Santa Sofia, che in lingua turca viene chiamata Ayasofya, la comunità occidentale ha reagito alternando amaro stupore ad incredulità.

Nell’immaginario collettivo del cristianesimo ortodosso l’ex cattedrale di Santa Sofia continua ad essere vista come il simbolo della cristianità, un luogo così santo ed iconico che non potrà mai essere considerato realmente perduto e che, anzi, alla fine dei tempi si crede che verrà riscattato con l’aiuto di Costantino XI Paleologo, l’ultimo imperatore bizantino, riportato nella dimensione terrena dalla Vergine Maria per combattere un’ultima battaglia.

Il “recupero di Costantinopoli” è uno dei temi centrali dell’escatologia ortodossa, ma è anche una questione che riguarda direttamente l’identità nazionale di popoli che hanno avuto una relazione altamente conflittuale con la Turchia nel corso dei secoli. Non è un caso che le esternazioni più dure all’annuncio della riconversione siano provenute proprio dai patriarcati dell’Europa orientale.

Per paesi come Stati Uniti e Francia, anch’essi intervenuti nella questione, la critica verteva invece sul più vago e fluido concetto di ecumenismo, sulla preservazione di un patrimonio mondiale e sul rispetto della sensibilità dei cristiani che potrebbero interpretare il gesto come un’offesa o una minaccia.

Santa Sofia non è una mossa elettorale

Sullo sfondo dello scontro diplomatico, la grande stampa occidentale ha bollato la mossa come un semplice calcolo politico di Erdogan per recuperare consensi, alla luce delle difficoltà economiche accentuate dalla pandemia, adducendo come prova della sua presunta ipocrisia la mancanza di un reale interesse per l’argomento nella prima parte degli anni 2000. Questa linea di pensiero è completamente erronea poiché ignora la realtà complessa e ostile nella quale il presidente ha dovuto muoversi per realizzare il proprio sogno di grandezza.

Infatti, il panorama istituzionale turco è uno dei più ideologizzati al mondo e la natura secolare della costituzione è stata storicamente protetta dalle forze armate. Dagli anni ’60 ad oggi, gli alti gradi dell’esercito turco hanno interrotto il corso politico, o minacciato di farlo, ben dieci volte. Lo stesso Erbakan, mentore di Erdogan e architetto della rinascita islamista nel paese, fu detronato nel 1997 per via della sua agenda domestica ed estera ritenuta incompatibile con i valori kemalisti.

Un occhio attento vedrebbe che Erdogan è stato guidato da un preciso disegno ideologico sin dagli esordi e che lo ha svelato gradualmente ed intelligentemente, di pari passo con l’indebolimento del fronte kemalista nelle forze armate, colpito da epurazioni e arresti per accuse di tradimento e cospirazioni antigovernative, soprattutto a partire dal 2010. Quell’anno un totale di 365 militari, in servizio ed in pensione, di alto e medio grado, furono incarcerati con la grave accusa di aver pianificato un colpo di stato per far cadere il governo dell’Akp nel 2003. Con quell’operazione, Erdogan dava ufficialmente inizio alla sua personale guerra contro il kemalismo, e a latere contro l’Occidente, cominciando ad implementare la propria agenda e a volgere lo sguardo su Ayasofya, pur senza fare mai riferimenti diretti per ragioni di avvedutezza.

La storia gli ha dato ragione: nel luglio del 2016 lo stato profondo turco ha tentato un ultimo colpo di coda, che è fallito perché avvenuto in ritardo, perché compiuto da una minoranza esigua, perché privo di appoggio popolare e perché disorganizzato. L’evento si è rivelato l’occasione ideale per lanciare un gigantesco repulisti, ancora in corso, che ha permesso a Erdogan di eliminare le ultime sacche di resistenza e di avviare finalmente la ricostruzione dell’impero.

Sulle orme di Maometto II

Ogni statista viene influenzato dai condottieri del passato le cui gesta hanno contribuito a donare grandezza e prestigio al proprio paese. Negli Stati Uniti vi è il culto dei padri fondatori, in Francia vi è il mito napoleonico, in Russia si riscontra una curiosa combinazione di nostalgia sovietica ed esaltazione dell’era zarista, mentre in Turchia si è assistito alla divinizzazione di Ataturk.

Erdogan, coerentemente con la propria visione, ha sempre manifestato una certa ostilità nei confronti del padre della Turchia moderna, preferendogli Maometto II, il conquistatore di Costantinopoli. Come lui, che secondo la tradizione ha pianto dalla commozione una volta messo piede ad Ayasofya il 29 maggio 1453, anche Erdogan è stato vinto dalle emozioni entrando nell’edificio, il 13 marzo di due anni fa, per recitare simbolicamente alcuni versetti coranici e dedicare una preghiera “alle anime di tutti coloro che ci hanno lasciato questo lavoro come eredità, specialmente il conquistatore di Istanbul”.

Alla vita di Maometto II e alla sua impresa più importante, ossia la cattura di Bisanzio, l’industria dell’intrattenimento turca ha anche dedicato una serie televisiva, Rise of Empires: Ottoman“, lanciata quest’anno su Netflix e filmata in lingua inglese per attrarre il maggior numero possibile di spettatori.

Preghiere e prodotti dell’intrattenimento a parte, a partire dal 10 luglio, Erdogan, potrà dedicare alla memoria del suo ispiratore anche il ritorno di Ayasofya a luogo di culto islamico.

Erdogan, sultano della Turchia e re dell’islam

Nello stesso modo in cui è sbagliato considerare come un calcolo elettorale il ritorno ad uso religioso di Santa Sofia, è un errore pensare che gli accadimenti che stanno scuotendo la Turchia non avranno ripercussioni nel mondo, più precisamente nello spazio islamico. Infatti, mentre l’Occidente muove guerra a se stesso nell’aspettativa di eliminare la propria identità, diversi stati e civilizzazioni hanno ritenuto che un ritorno al passato fosse l’unico modo per contrastare la distruzione omologatrice della globalizzazione.

I paesi di tradizione musulmana sono stati particolarmente sconvolti dall’entrata nella modernità, come palesato dall’emblematica comparsa del terrorismo jihadista, che il politologo Benjamin Barber riteneva fosse un’espressione tribalista, eccezionalmente violenta, da inquadrare nel più ampio contesto di rigetto della globalizzazione nel Sud del mondo.

Gli stati del mondo islamico (dar al-islam) hanno dovuto fare i conti con questa ondata identitaria e con le sue riverberazioni mortifere. In alcuni paesi, come l’Egitto, le forze armate hanno deciso di intervenire per impedire l’ascesa al potere delle forze islamiste, mentre in altri, come la Turchia, la Malesia e il Pakistan, hanno prevalso i fautori della rivoluzione religiosa.

L’Iran non ha saputo e non ha potuto sfruttare pienamente il momento khomeinista perché, pur proclamando ambizioni universali, è e continuerà ad essere il rappresentante di una realtà minoritaria all’interno dell’islam. Anche se l’ordine rivoluzionario dovesse resistere ai colpi inferti dal triangolo Washington-Riad-Tel Aviv, la sua influenza resterebbe relegata alla galassia sciita.

La questione è, invece, radicalmente diversa per la Turchia, la cui peculiare forma di islam sunnita si è rivelata attraente e facilmente esportabile in tutto il mondo, specialmente tra le comunità di musulmani presenti in Europa, e ha potuto essere adattata per forgiare un’alleanza con la Fratellanza Musulmana. Se a ciò si somma che le direttrici neo-ottomane, panturchiste e pan-islamiste della politica erdoganiana hanno trasformato il presidente turco nel capo di stato di fede islamica più apprezzato dall’opinione pubblica araba, si possono intuire più facilmente le sue ragioni su Santa Sofia. È lui che ha scelto di caricarsi del fardello di ricondurre la civiltà islamica all’età dell’oro e, adesso, è il responsabile dei desideri di oltre un miliardo di persone.

In definitiva, il “fenomeno Erdogan” non sarà confinato, né confinabile, entro le frontiere della Turchia, perché il dar al-islam ha storicamente sentito la necessità di avere una guida, sin dai tempi del profeta Maometto, e la “rinascita della grande potenza turca” getta le basi per la scomposizione di equilibri di potere attuali e per la riproposizione di schemi ritenuti sepolti ed anacronostici, come il turco-centrismo. Le prossime tappe di questo lungo viaggio saranno Gerusalemme e Riad, che i rivali di Erdogan si preparino: l’impero ottomano è tornato.

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