La liberazione di Silvia Romano è un risultato fondamentale di tre fattori: lavoro di intelligence, opera di diplomazia e capacità operative sul campo in uno dei teatri più difficile del mondo, il Corno d’Africa. Un’operazione che si è svolta all’alba del nove maggio a trenta chilometri da Mogadiscio, in Somalia, e che è il completamente di un lavoro cominciato subito dopo le 19.30 del 20 novembre del 2018, quando la cooperante italiana venne rapita da una banda armata nel villaggio di Chakama in Kenya.

Le cose hanno subito una decisa accelerazione nel novembre dell’anno scorso, quando i servizi segreti italiani hanno avuto la certezza che Silvia Romano fosse viva. Una sicurezza che ha permesso al numero uno dell’Aise, Luciano Carta, di muovere le pedine definitive nelle scorse settimane, con l’invio dei suoi uomini a Nairobi, in Kenya. Il contatto era quello giusto, spiegano le fonti di Repubblica, tanto che in pochi giorni è arrivata la svolta per il negoziato. L’appuntamento viene fissato nella notte tra l’8 e il 9 maggio sotto la pioggia battente di Mogadiscio. E mentre nella capitale somala esplodevano colpi di mortaio, non lontano dalla sua periferia avveniva lo scambio per riavere Silvia.

Uno scambio che indica due elementi che hanno rappresentato da sempre i binari del lavorio degli 007 italiani. Da una parte la questione dei soldi: perché quello di Silvia Romano era stato da subito un sequestro a scopo di estorsione. Dall’altro lato, non va sottovalutato un fattore essenziale mai taciuto nemmeno dalle prime agenzie di stampa, ma anzi quasi volutamente ribadito dalle fonti dei servizi: l’apporto dell’intelligence turca.

Un elemento importante perché fa comprendere quanto profondo sia il radicamento della Turchia nel Corno d’Africa: un tempo territorio “di caccia” delle potenze europee, con l’Italia in prima linea grazie ai contatti ereditati dal fu impero coloniale, e che ora si trova al centro di una guerra che ha tutto il sapore mediorientale. Lo Stato africano è un complesso ginepraio di interessi strategici e di lotte per il controllo del territorio. I signori della guerra, i pirati, bandi di predoni, i terroristi di Al Shabaab e un governo fragile fanno da sfondo a una vera e propria sfida per il controllo delle aree del Paese. Gli Emirati Arabi Uniti hanno da tempo avviato una loro politica di penetrazione nella parte settentrionale, quella che si affaccia sul Golfo di Aden. Mentre più a Sud, nella capitale Mogadiscio, è con i turchi che bisogna trattare. E gli italiani lo sanno benissimo.

Recep Tayyip Erodgan è stato uno dei primi leader mediorientali e mondiali a intessere rapporti estremamente proficui con i governi somali. E ha saputo sfruttare la debolezza degli esecutivi per imporre la propria agenda. Il sogno neo ottomano del sultano si costruisce su solide basi storiche che non possono non tener conto che i contatti tra la Sublime Porta e il mondo africano arrivavano proprio fino al Corno d’Africa. Ed è così che tra aiuti economici, investimenti, basi militari e contatti con il mondo islamico locale (non estraneo anche alla Fratellanza musulmana), Erdogan ha di fatto reso la Somalia un avamposto della strategia turca. E ancora una volta l’Italia ha dovuto avere a che fare con gli agenti di Ankara: come nel Mediterraneo orientale e a Tripoli, dove ormai sembra impossibile non coinvolgere anche gli uomini del Sultano. La tattica sembra non troppo diversa da quella adottata in Libia: si lascia che la guerra faccia il suo corso, si penetra fra le macerie ripercorrendo i confini dell’antico impero ottomano, si utilizzano le vie della cooperazione, dello sfruttamento energetico e del retroterra culturale, e infine arrivano i militari. Una presenza, quella turca, che ha scatenato da tempo i terroristi di Al Shabaab, che hanno più volte preso di mira lavoratori e unità inviate da Ankara per inviare un segnale a Mogadiscio ma soprattutto al governo turco.

Il lieto fine del rapimento di Silvia Romano è il segnale eloquente di questa realtà. Come in Libia così in Somalia, quelle che erano colonie italiane – e con cui Roma aveva necessariamente rapporti eccellenti anche una volta diventate indipendenti – ora sono territorio in cui è l’influenza turca a prevalere. Ed è a tutti gli effetti una vittoria di Erdogan: l’unico leader a sapere mantenere e rafforzare i rapporti del proprio Paese nel mondo africano confermandosi nella sua strategia neo-ottomana e grazie a un sapiente gioco di diplomazia, strategia militare e alleanze. E per l’Italia c’è poco da sorridere, a eccezione della vittoria di riavere a casa la nostra ragazza. Tanto è vero  che già qualcuno inizia a temere che il favore ricevuto dagli 007 turchi in Somalia possa avere importanti ripercussioni sull’altro teatro dove Ankara e Roma si trovano a dover convivere: Tripoli. E lì un lasciapassare italiano agli interessi turchi potrebbe cambiare radicalmente i piani del nostro Paese in tutto il Mediterraneo allargato.