Come visto nel precedente capitolo del reportage de Gli Occhi della Guerra dedicato al confronto dei programmi elettorali dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, le concezioni di Donald Trump e Hillary Clinton in materia di politica estera sono altamente differenti, sebbene entrambe siano accomunate da un dato di primaria importanza.LEGGI ANCHE: La politica estera di Trump e ClintonNell’evoluzione del loro pensiero geopolitico, infatti, tanto Trump quanto la Clinton hanno operato una sintesi tra concezioni partitiche, analisi dell’operato delle ultime amministrazioni e considerazioni personali nella quale, in entrambi i casi, sono queste ultime a svolgere da fattore di traino. Ciò è intuibile confrontando le geopolitiche made in Trump e made in Clinton in profondità , analizzando le concezioni evolute dai candidati circa il ruolo futuro degli Usa nel mondo. Si era a tal proposito parlato di “ripiegamento espansivo” a riguardo di Trump e di “globalismo ramificato” in riferimento alla Clinton.Il pensiero dei due candidati inerente questa delicata tematica non manca di ripercuotersi sulle loro prese di posizioni circa il ruolo degli Usa all’interno dell’architettura di alleanze militari, trattati commerciali e partenariati strategici in cui Washington si trova oggigiorno ad operare. In questo secondo capitolo si vorrà espandere il campo ispezionato nel corso del precedente, facendo particolare attenzione alle concezioni di Trump e della Clinton riguardo le relazioni tra gli Stati Uniti e l’Europa. Esse saranno vagliate sia in riferimento alle opinioni dei candidati riguardo l’alleanza militare imperniata sulla Nato sia per quanto concerne il profilo economico. La terza ed ultima parte del capitolo, invece, tratterà delle possibili politiche future degli Usa in materia di trattati commerciali, un tema fortemente delicato e ampiamente dibattuto a livello internazionale, come testimoniano le recenti discussioni riguardanti l’implementazione del Ttip.Le elezioni dell’8 novembre e il futuro della NatoCome nelle precedenti elezioni, l’Europa guarda con un occhio particolare al voto americano e si attende ripercussioni di prima grandezza dopo l’8 novembre. In particolare, risulterà importante scoprire come le elezioni influiranno, nel lungo periodo, sulla struttura dell’Alleanza Atlantica e sui rapporti ad essa interni tra gli Usa e i partner europei. Riguardo alla Nato, le diverse posizioni in materia di politica estera e le dichiarazioni rilasciate possono consentire di inquadrare le vedute di Trump e la Clinton, schierati a riguardo su posizioni alquanto differenti.Trump ha in diversi casi rilasciato commenti decisamente poco lusinghieri nei confronti della Nato: egli ha insistito soprattutto sulla scarsa collaborazione ricevuta dagli alleati europei e asserito che, in caso di una sua vittoria alle presidenziali, gli Usa si sarebbero decisi a ottemperare con regolarità ai loro obblighi riguardanti la Nato solo nel caso in cui anche i Paesi d’Europa avessero deciso di fare altrimenti. Favorevole a una strategia incentrata su un “ripiegamento espansivo”, Trump propone di conseguenza un sostanziale riequilibrio di bilancio per l’Alleanza Atlantica, a suo parere troppo dipendente dai contributi versati da Washington e ha avuto di recente a causa delle sue prese di posizione uno scontro col Segretario Stoltenberg. Sostanzialmente, Trump giudica lo stato attuale della Nato non perfettamente funzionale all’idea di alleanza che si è prefissato di ottenere; al tempo stesso, non ha mai paventato strappi repentini con gli Stati europei e, nel primo dibattito con Hillary Clinton all’Hofstra University di Hempstead, ha dichiarato al contrario di essere favorevole alla ricerca di opportune misure per un rafforzamento dell’intesa. C’è da sottolineare che anche nei confronti delle alleanze con Giappone e Corea del Sud Trump si è espresso in maniera simile: pur non rinnegando l’utilità degli accordi coi Paesi vicini agli Usa, ha criticato fortemente l’attuale linea di gestione che vede eccessivi oneri in capo a Washington in cambio di scarsi ritorni concreti.LEGGI ANCHE: Elezioni Usa: la posta in giocoSul fronte opposto, Hillary Clinton ha qualificato a più riprese le dichiarazioni di Trump sulla Nato come irresponsabili e propugna una concezione del sistema di alleanze statunitense funzionale alla strategia fortemente interventista che caratterizza la sua posizione geopolitica. Numerosi media pro-Clinton, inoltre, hanno voluto legare assieme le critiche di Trump alla Nato alle dichiarazioni del tycoon repubblicano favorevoli a un riavvicinamento con la Russia interpretando la campagna elettorale come una “corsa di Hillary contro Putin”, come riportato in un articolo di luglio di The Atlantic. La visione dei rapporti internazionali propria di Hillary Clinton la porta a evolvere una concezione decisamente “tradizionale” delle alleanze intessute dagli Usa e della Nato in particolare, dato che esse sono considerate la piattaforma ideale per la veicolazione della potenza americana nel mondo. Un enforcement della potenza militare Usa in Europa sarebbe in tal senso auspicato dalla candidata democratica, ed essa seguirebbe in questo ambito il solco tracciato dalla seconda amministrazione Obama, che nel corso degli ultimi anni ha espanso la presenza effettiva delle truppe Nato sino ai paesi dell’Europa Orientale vicini ai confini della Russia. La Nato, dunque, in caso di presidenza Clinton sarebbe concepita come una degli strumenti principali delle politiche di contenimento delle altre potenze internazionali ed espansione dell’influenza Usa nel mondo di cui si parlava nel capitolo precedente.Scenari economici tra Washington e l’EuropaLa visione delle relazioni internazionali profondamente centrata sull’economia propria di Donald Trump ha portato il candidato repubblicano a valutare, nella costruzione del suo sistema geopolitico e del programma elettorale di politica estera, la riconsiderazione di svariati presupposti strategici delle ultime amministrazioni Usa.La polemica deflagrata nel mese di marzo a causa delle affermazioni di Trump circa l’incapacità dell’Unione Europea di garantire la sicurezza ai suoi cittadini contro l’afflusso di potenziali terroristi entro i suoi confini ha offerto un saggio di questo dato: la contrapposizione con Bruxelles sui temi dell’immigrazione, della sicurezza e della lotta al terrorismo, infatti, non rappresenta altro che la manifestazione del pensiero di Trump riguardo le relazioni bilaterali tra gli Usa e l’Unione Europea.Il magnate newyorkese, infatti, non è disposto per principio a mantenere intatta la “relazione speciale” attualmente vigente tra Washington e Bruxelles, e questo è stato dimostrato apertamente dal supporto accordato dal candidato repubblicano alla scelta dei cittadini del Regno Unito nel referendum che ha aperto la strada alla Brexit. Si può comprendere come Trump veda sempre con maggior concretezza l’Europa profilarsi come un potenziale avversario economico e commerciale: la scelta di procedere a un rilancio della produzione manifatturiera interna agli Usa e l’interpretazione fortemente incentrata sul tema economico della potenza statunitense hanno condotto Trump a evolvere sempre maggiori riserve nei confronti dei partner di oltre Atlantico. La polemica per la scarsa partecipazione dei governi europei alle spese della NATO, di fatto, non rappresenta che un’ulteriore conseguenza di quanto detto finora: è bene infatti ricordare come nella geopolitica made in Trump l’alleanza militare sia sempre reputata di importanza secondaria rispetto alla relazione economica, che diviene il principale benchmark di riferimento per la definizione dei rapporti con le altre nazioni e con le organizzazioni internazionali.Politico ha parlato di un “pivot to Europe” per quanto concerne la strategia internazionale di Hillary Clinton. La cosa non dovrebbe stupire se si inserisce l’elemento economico nel contesto della strategia geopolitica dell’ex First Lady: la comunanza di interessi economici, assieme all’alleanza militare, costituisce la pietra miliare del rapporto tra Usa ed Europa, e ora più che mai una presidenza Clinton necessiterebbe di un rafforzamento della duratura relazione bilaterale col Vecchio Continente funzionale all’implementazione della sua politica estera. L’eredità della seconda amministrazione Obama, infatti, è rappresentata da una regressione dell’influenza statunitense in buona parte delle regioni strategiche del mondo: l’Europa, in tal senso, ha costituito a lungo un’eccezione, ma negli ultimi mesi numerosi contenziosi tra le nazioni europee e gli Usa hanno rappresentato altrettanti campanelli d’allarme per la leadership di Washington. Lo scandalo Volkswagen, la maxi-multa della Commissione Europea ad Apple e la deflagrazione del contenzioso sull’altrettanto considerevole sanzione imposta in terra statunitense a Deutsche Bank, infatti, riflettono le difficoltà vissute al giorno d’oggi dalle relazioni economiche tra le due sponde dell’Atlantico. In numerosi interventi la Clinton ha ribadito la sua volontà di espandere la cooperazione commerciale con l’Europa, ma al contempo non ha definito piani d’azione espliciti. Una cosa sola appare certa: nonostante le dichiarazioni ad esso favorevoli espresse ai tempi del suo incarico al Dipartimento di Stato, la Clinton in caso di elezione non intende procedere sulla strada dell’implementazione del Ttip. Proprio sul rapporto dei due candidati con il sistema dei trattati commerciali conclusi o pianificati dal governo Usa negli ultimi anni è importante soffermarsi, dato che le prese di posizione di Trump e della Clinton a riguardo, seppur accomunate da alcuni elementi significativi, sono il frutto di elaborazioni e percorsi politici tra loro completamente divergenti.Quale futuro per i trattati commerciali?Tanto Trump quanto la Clinton hanno espresso il loro disaccordo nei confronti delle strategie implementate da Barack Obama e John Kerry dal 2013 in avanti sul piano commerciale, focalizzate sullo sviluppo degli accordi commerciali di libero scambio ad ampio raggio come il Ttip transatlantico e il Tpp transpacifico. Se l’accordo con i partner pacifici degli Usa è andato in porto a inizio 2016, il progetto per la conclusione del Ttip è oggi decisamente in alto mare, a causa del blocco delle negoziazioni dovuto tanto all’inizio delle prime avvisaglie di crisi nei rapporti bilaterali tra Usa e Paesi europei quanto alla sua sempre più evidente asimmetricità rispetto alla reale situazione internazionale vigente.L’apertura generalizzata degli scambi sui due fronti oceanici, infatti, avrebbe dovuto rappresentare l’apogeo della globalizzazione neoliberista, il momento del definitivo trionfo del progetto monopolare made in Usa: la realtà storica contemporanea, di conseguenza, boccia per sua stessa natura una chiusura del cerchio e, in particolare, il Trattato Transatlantico, oggetto negli ultimi mesi di aspre critiche da parte di istituzioni nazionali e della società civile occidentale per le ambiguità e le distorsioni riscontrabili al suo interno. Le motivazioni che hanno portato i due candidati ad avversare la conclusione dell’accordo transatlantico e a biasimare Obama per la conclusione di quello transpacifico, in ogni caso, sono state decisamente differenti.Trump, infatti, ha osteggiato gli accordi commerciali di libero scambio ritenendoli un potenziale ostacolo alle sue politiche economiche interne, di cui si parlerà in uno dei prossimi capitoli, e soprattutto al suo disegno strategico generale. La crescita economica degli Usa, componente essenziale per la realizzazione concreta del motto della campagna elettorale del magnate newyorkese (Make America Great Again!), dovrà secondo Trump avvenire in conseguenza a una ripresa produttiva interna, e di conseguenza un’ulteriore avanzata del grado di interconnessione delle economie potrebbe portare a incentivi alla delocalizzazione della produzione potenzialmente d’ostacolo ai disegni del candidato repubblicano.Più complesse sono le motivazioni che invece hanno portato la Clinton a schierarsi contro i trattati di libero scambio quattro anni dopo aver definito il TTIP “una NATO economica”. Sicuramente hanno pesato motivazioni di carattere strategico, connesse alla maggiore focalizzazione “diplomatica” della geopolitica della candidata democratica, ma al tempo stesso non vanno sottovalutati fattori di natura tattica. La volontà di dimostrare a un elettorato democratico sostanzialmente scontento della gestione dell’amministrazione Obama un certo grado di discontinuità è da prendere sicuramente in considerazione, ma ancora più importanti risultano elementi concernenti le dialettiche interna al Partito Democratico. Non bisogna infatti dimenticare come la candidatura Clinton sia emersa dopo un lungo testa a testa col Senatore del Vermont Bernie Sanders, portavoce dell’ala “sinistra” e progressista della formazione democratica e strenuo oppositore del sistema dei trattati commerciali. Il compromesso della Clinton sui trattati commerciali è stato dunque sicuramente dettato anche dalla necessità essenzialmente tattica di fare breccia nel fronte elettorale dello sfidante alle primarie e, dopo la loro conclusione, assicurarsi il suo sostegno in vista dell’8 novembre. Sotto questo punto di vista la strategia dell’ex First Lady ha raggiunto lo scopo prefissato: il 12 luglio, in un discorso tenuto a Portsmouth, New Hampshire, Bernie Sanders ha ufficializzato il suo endorsement a Hillary Clinton per la corsa alla Casa Bianca.
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