La battaglia per la conquista della Casa Bianca è tutta da giocare. Ma i comitati dei due candidati lavorano a pieno regime. Mentre i sondaggi fotografano un’estate complessa per il presidente Donald Trump, dalle parti di Joe Biden si definisce un programma sempre più dettagliato. Uno dei dossier più caldi è quello sulla politica estera. L’ex vice di Barack Obama sta preparando una grossa virata rispetto a quanto fatto dal presidente repubblicano negli ultimi quattro anni.

Il piano di Biden

Una delle cifre distintive della presidenza Trump è stata quella di regolare i rapporti con gli altri Paesi all’insegna dell’American First, cioè un approccio che massimizzasse gli interessi americani anche a discapito degli alleati. Nel corso degli anni Trump ha smantellato poco alla volta il  multilateralismo che aveva regolato la politica di Washington fino all’amministrazione Obama, in favore di un’assertività che premiava gli incontri bilaterali e un approccio meno accondiscendente con avversari e alleati.

Come scrive Associated Press l’ex vicepresidente e i collaboratori si preparano a un vero e proprio ribaltone, una retromarcia che smantelli o limiti molte delle azioni più significative di The Donald dal Medio Oriente all’Europa passando per Asia e America Latina. Una restaurazione che coinvolgerebbe commercio, terrorismo, immigrazione, guerre e corsa agli armamenti. Solitamente nel passaggio da un presidente all’altro, anche tra repubblicani e democratici, non c’è mai stata una rottura netta. Pensiamo solo alle guerre in Iraq e Afghanistan che Obama ha ereditato dall’amministrazione di Bush. Non ci sono stati cambiamenti radicali con ritiri repentini. Biden promette invece di agire già dal giorno zero.

Sull’immigrazione con ogni probabilità si arriverà al ritiro del contestato muslim ban e a chiudere la partita sui Dreamers. Sul fronte degli accordi internazionali con ogni probabilità si cercherà di rientrare nell’Organizzazione mondiale della sanità e di riattivare gli accordi sul clima di Parigi. Sul piano militare Biden cercherà di ridare nuove energie alla Nato, con la promessa di riallacciare i rapporti coi leader europei all’insegna del “We’re back”, cioè siamo tornati.

Per capire meglio questo ritorno al periodo obamiano prendiamo in esame i singoli dossier. Per quanto riguarda il cortile di casa, l’America Latina, con ogni probabilità ci sarà una nuova policy sulla gestione dei flussi, magari con modalità di richiesta di asilo meno stringenti. Poi con ogni probabilità verrà anche rivisto il finanziamento per il muro con il Messico e si ripristinati i contatti con Cuba.

Come abbiamo detto nel contesto Europeo ci sarà una sorta di ammorbidimento nel rapporto coi vari alleati nel Vecchio continente, magari con il congelamento della riduzione di truppe in Germania. In Medio Oriente potrebbe esserci un ritorno ad appoggiare l’Autorità palestinese, magari riaprendo le agenzie di supporto per i rifugiati chiuse da Trump, ma soprattutto una ripresa del dialogo con Teheran e un raffreddamento dei rapporti con l’Arabia Saudita, che invece l’amministrazione Trump ha rinforzato. Sul fronte asiatico invece potrebbe esserci un rilassamento dei rapporti con gli alleati storici Corea del Sud e Giappone, spesso criticati dal presidente repubblicano per non spendere abbastanza. Mentre in Africa è quasi certo un maggiore coinvolgimento in chiave anti-cinese.

Gli uomini di Obama al lavoro sui dossier

Per portare avanti questa rivoluzione Biden ha imbarcato nella sua piattaforma diversi consiglieri la cui provenienza ci fa capire quanto la restaurazione dem guardi sia ad Obama che all’establishment che ha guidato il Paese fino al 2016. Tra i nomi che circolano nella campagna dell’ex vicepresidente c’è quello di Jake Sullivan, vice assistente di Obama e direttore della pianificazione al dipartimento di Stato nonché ex collaboratore di Hillary Clinton durante la campagna elettorale del 2016; quello di Nicholas Burns consigliere in politica estera sia del presidente George W. Bush che di Bill Clinton; e quello Tony Blinken, in passato vice segretario di Stato e vice consigliere di Obama per la sicurezza nazionale. A completare il quadro potrebbe anche esserci Susan Rice, in passato ambasciatrice alle Nazioni Unite e consigliera per la sicurezza nazionale dal 2013 al 2017, che potrebbe essere scelta come candidata alla vicepresidenza.

Per capire quanto la politica estera sarà terreno di scontro tra Biden e Trump durante la campagna elettorale basta guardare la complessa infrastruttura che l’enturage del candidato dem ha messo in piedi per elaborare proposte e dossier. Foreign Policy è riuscita a mettere le mani su una lunga lista di nomi a lavoro per Biden fuori dalla macchina della sua campagna elettorale.

Secondo i documenti è stata creata una struttura parallela con oltre 2.000 persone tra consulenti di politica estera e di sicurezza nazionale. Questi sono poi inquadrati in una ventina di gruppi di lavoro che affrontano temi specifici come controllo degli armamenti, la Difesa o l’intelligence. A capo dei gruppi ci sono poi una cinquantina di funzionari quasi tutti con un passato nell’amministrazione di Obama dal dipartimento di Stato a quello della Difesa e dell’Homeland security. Tra tutti i volontari ci sono poi consulenti confluiti da altri candidati alle primarie dem come Elizabeth Warren e Pete Buttigieg.

Questi gruppi inviano poi i risultati del lavoro a una sorta di cerchio magico intorno al candidato dem: tra questi il già citato Jake Sullivan, ma anche Antony Blinken, ufficialmente consigliere per la politica estera del comitato per l’elezione di Biden, ma in passato vide segretario di Stato, Avril Haines ex vide direttrice della Cia tra il 2013 e 2015 e il duo di ex consiglieri per la sicurezza di Biden ai temi della sua vicepresidenza, Julie Smith e Brian McKeon. Questo team filtra poi i contenuti che arrivano sulla scrivania dell’ex senatore del Delaware.

Gli obiettivi dietro a questa grossa struttura non riguardano solo idee elaborate per superare le politiche di Trump, ma anche quella di preparare l terreno per la ricostruzione del National Security Council, un organo con funzioni di consulenza all’interno della Casa Bianca in parte abbandonato da Trump. Alcune voci anonime hanno però sottolineato che questa mole di lavoro non serva solo a produrre proposte, ma a far crede a tutte le anime del partito di essere coinvolte, in particolare la fetta della sinistra che può essere ricondotta a Bernie Sanders.

Non a caso tra i gruppi di lavoro ne sono stati creati due che si occupano di migliorare la presenza di minoranze e donne nelle istituzioni. Temi molto sentiti dalla base del senatore del Vermont. Tra le proposte prodotte dai gruppi di lavoro sono arrivate anche alcune molto care alla sinistra dem: la fine delle guerre, l’abbandono dell’aggressività di Trump contro l’Iran, la fine del sostegno militare e logistico all’Arabia Saudita per la guerra in Yemen. Questa immensa macchina però rischia di incepparsi ancora prima di iniziare il rodaggio.

Perché il piano di Biden potrebbe non funzionare

Più di qualche analista ha passato al setaccio questa “rivoluzione” di Biden. Il punto, hanno sottolineato, è che non ci troviamo più nel 2016 e che l’era Obama è finita così come lo spazio per il multilateralismo. Un ribaltone come quello che i consiglieri stanno disegnando per Biden è molto difficile, sia che lo si osservi dal fronte esterno che dal fronte interno.

Il terreno geopolitico in cui si muove Biden, ha scritto Todd Mariano dell’Eurasia Group, presenta una contrapposizione con le altre potenze come Cina e Russia molto più aggressiva e accesa. Rispolverare il multeralismo potrebbe scontrarsi con le difficoltà di convincere nuovi e vecchi alleati a seguire la guida americana e questo per diverse ragioni tra qui la vasta influenza economica di Pechino.

Il dossier cinese infatti è uno dei temi più complessi per Biden. Nel caso dovesse vincere le elezioni del 3 novembre non sarà semplice elaborare una nuova policy asiatica – e soprattutto cinese – coerente. La volontà di ritornare al multilateralismo farebbe comodo in alcuni dossier come quello climatico o iraniano. Ma l’aggressività di Pechino in vari quadranti, come Taiwan, Hong Kong e Mar Cinese Meridionale, non lascia molto spazio di movimento. È probabile quindi che anche con Biden il contenimento della Repubblica popolare resti al centro dell’azione di Washington, come chiesto anche dal Pentagono in più di un’occasione, ma che si rispolveri il vecchio “Pivot to Asia” di Obama per coinvolgere altri partner nell’area.

Stesso discorso anche per la battaglia tecnologica intorno all’uso dei dati, alla diffusione del 5G e alle violazioni dei diritti umani soprattutto a Hong Kong e Xinjiang. Da ultimo, ma non meno importante, la stessa guerra commerciale non può essere liquidata facilmente. L’idea di tornare a una maggiore liberalizzazione del mercato potrebbe scontrarsi con le nuove correnti interne al Congresso. La difficoltà a portare il trattato trans-pacifico in parlamento durante la presidenza Obama è stato uno dei segnali di una certa resistenza di deputati e senatori a maggiori aperture in tema commerciale.

Questo aspetto ha a che fare anche con il delicato fronte interno. L’America del 2020 è cambiata e la tendenza verso un minor coinvolgimento negli scenari globali va oltre Trump. La richiesta di isolazionismo voluta dai cittadini, scrive ancora Mariano, limiterà le possibilità di intervento di un eventuale presidente Biden. La stessa base di Sanders è già pronta a opporsi a nuovi coinvolgimenti all’estero, soprattutto dopo gli effetti della pandemia. Non a caso il coronavirus resta il pensiero primario dei cittadini che andranno alle urne, al di là di promesse sulla ricostruzione di una leadership globale.

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