Se a John F. Kennedy vanno riconosciute due grandi invenzioni sono senza dubbio la Nuova Frontiera e la “promessa” di andare sulla luna. Era il settembre 1962 quando l’allora presidente, di fronte a una platea di 40mila persone nello stadio della Rice University in Texas, tenne un discorso passato alla storia con il titolo We choose to go to the Moon: Kennedy spiegò come gli Stati Uniti avevano scelto d’investire nelle spedizioni spaziali, individuando la luna come meta, per vincere la competizione pacifica dell’esplorazione dello Spazio.
1962: la Frontiera si sposta sulla luna
“Abbiamo scelto di andare sulla luna in questo decennio e di fare le altre cose non perché siano facili, ma perché sono difficili. Perché questo obiettivo servirà per organizzare e misurare il meglio delle nostre energie e delle nostre capacità”. Quella scadenza così stringente bastò a gettare nel panico tecnici e scienziati della Nasa, assolutamente impreparati a quel timer che ormai pendeva sulle loro teste. L’azzardo di promettere la luna si inseriva in una precisa strategia di propaganda che serviva a recuperare terreno nei confronti di un’Unione Sovietica che tra Sputnik e Yury Gagarin aveva strappato il primato dello Spazio.
La promessa, mantenuta, della luna era una manovra distrattiva che spostava la Frontiera nel Cosmo, traslando l’idea del Destino Manifesto oltre l’orbita terrestre. Era una promessa scientifica, politica, era retorica del sogno nel solco della tradizione progressista. Sette anni dopo, la missione Apollo 11 realizzava il primo passo dell’uomo sul nostro satellite. Kennedy era morto sei anni prima: i suoi successori non esitarono a raccogliere il capitale politico del programma spaziale. Per Lyndon B. Johnson lo Spazio era diventato uno strumento politico ancora più sfaccettato, fornendo un parallelo “romantico” per i suoi programmi sociali sulla Terra. Anche per Richard M. Nixon la missione Apollo rappresentò un’opportunità sfruttabile al momento giusto. Sebbene fosse stato proposto da uno dei suoi più feroci rivali cooptò il Progetto Apollo a sostegno del suo programma di relazioni estere, appuntandosi al petto la medaglia di presidente della nazione che aveva appena realizzato il primo allunaggio: era l’Operazione Moonglow.
Riportare l’America sulla luna
Più di cinquant’anni dopo, gli Stati Uniti ci riprovano. E lo fanno nutrendo la suspance che porterà al nuovo storico allunaggio a stelle e strisce. Questo il senso del programma Artemis che riporterà in auge le atmosfere alla Fly me to the moon nel 2025. Alla vigilia di una delle campagne elettorali più complesse della storia, con il clima delle primarie che si scalda, i guai giudiziari di Trump e un’intricata situazione geopolitica mondiale, Washington tenta il “metodo Kennedy”: far sognare gli americani (e forse, il mondo). La Nasa, dopo oltre 50 anni, ha infatti programmato una missione umana intorno alla luna nel novembre 2024: dalla data esatta dipenderà l’esito politico dell’impresa, ovvero galvanizzare gli elettori o omaggiare il nuovo presidente. Ma come nel 1969, la nuova missione lunare mira a promuovere una certa idea di America che sembra ormai tendere al ribasso: l’equipaggio che vi prenderà parte ha una donna al suo interno, l’ingegnera americana Christina Koch e Victor Glover, il primo afroamericano in una missione lunare. Tutti dettagli che sono sintomo del tentativo di comunicare una “Nuova Frontiera”.
Succederà alla fine del 2024, a 52 anni dall’ultima missione Apollo del 1972. Gli astronauti saranno a bordo della missione Artemis II, la prima con equipaggio del programma lunare Artemis. Nell’arco di 10 giorni, volerà fin dietro la faccia nascosta della luna, spingendosi più lontano dalla Terra di quanto non abbia mai fatto un essere umano. Ad annunciarlo il 3 aprile scorso, il numero uno della Nasa, Bill Nelson, in un evento al Johnson Space Center di Houston.

Elezioni presidenziali e missione sulla luna:
Una scelta casuale quella di annunciare la missione proprio mentre gli occhi erano tutti puntati sul caso Trump? L’allunaggio sarà invece l’obiettivo della missione Artemis III, prevista per il 2025. Ma chi aveva avuto l’onore di proclamare il ritorno sulla luna entro il 2024, proprio come Kennedy nel 1962? Donald Trump nel 2017. Una scadenza per che era parsa ancora una volta una corsa contro il tempo, più ambiziosa che reale. Tanto che i funzionari della Nasa avevano bollato, ancora una volta, questi annunci a scadenza come prove da sforzo politiche, consentendo ai manager di regnare sugli ingegneri. Resta però lo scarto temporale tra chi annuncia le missioni e chi ne gode, tanto da rendere questo tipo di investimenti perennemente incerti. Come in questo caso, sincronizzare la corsa allo Spazio con il calendario politico crea complicazioni: questo significa che se qualcosa dovesse andare storto a pagarne le conseguenze sarà sempre chi “eredita la missione”, con tutte le conseguenze politiche del caso.
L’agenzia spaziale americana riscuote notoriamente un sostegno bipartisan, tuttavia il controllo del Congresso (e del Senato) è fondamentale per poter potenziare i programmi di spesa necessari alle missioni e alla loro sicurezza: questo significa che quello del 2024 è un meccanismo perfettamente sincronizzato dal quale dipenderà il futuro prossimo della politica spaziale americana.