La Cina e gli Stati Uniti hanno riaperto le possibilità di cooperazione in merito alle questioni climatiche: il presidente Xi Jinping ha partecipato giovedì 22 aprile, insieme ad altri 40 leader mondiali, al vertice virtuale sul clima organizzato dagli Usa che possiamo considerare propedeutico al Cop26 di Glasgow che si terrà il prossimo novembre.
Questo incontro è stato fortemente voluto dal presidente Biden che ha nella sua agenda il recupero della politica ambientalista dell’amministrazione Obama. In particolare la Casa Bianca punta molto sulla green economy con la finalità di staccare il Paese dalla dipendenza dagli idrocarburi entro il 2050, seguendo una tabella di marcia che prevede di produrre energia senza l’emissione di carbonio entro il 2035. Sul fronte opposto, la Cina si adopererà per raggiungere il picco delle emissioni di anidride carbonica entro il 2030 e successivamente conseguire la neutralità carbonica entro il 2060.
Le due nazioni che in questo particolare momento storico si stanno affrontando a tutto campo riesumando dinamiche proprie della Guerra Fredda, hanno quindi trovato un’intesa dal punto di vista della questione ambientalista. Tale accordo non deve stupire: come già detto dalle colonne di InsideOver, avversari possono collaborare, anche con profitto, su tematiche diverse dove non sono in contrasto. È uno dei principi cardine della politica internazionale, dove anche quando gli Stati entrano in conflitto aperto, non cessano mai i contatti diplomatici. Succedeva durante le guerre mondiali, è successo durante la Guerra Fredda tra Usa e Urss, e sta succedendo oggi, sebbene tra Washington e Pechino manchi una “Jalta” che spartisca i rispettivi ambiti di influenza.
L’arma a doppio taglio
La questione climatica, soprattutto per quanto concerne la decarbonificazione ed il passaggio alla green economy, ha però in sé un’arma a doppio taglio da cui Washington dovrà guardarsi.
Per capirlo occorre fare un passo indietro a tornare al tempo dell’amministrazione precedente, quando il presidente Trump scelse di ritirare gli Stati Uniti dagli accordi di Parigi.
Quella decisione non fu un semplice mantenimento di una promessa elettorale, né tanto meno un atto sconsiderato preso su basi ideologiche senza considerare le evidenze scientifiche. Quanto avvenne fu una scelta ponderata rispondente a un preciso disegno geopolitico in funzione delle stesse clausole dell’accordo parigino.
Innanzitutto il governo statunitense ha motivato la scelta accusando la Cina, insieme ad altri Paesi asiatici come l’India, di voler scaricare sugli Stati Uniti il costo dell’inquinamento cui contribuisce più di qualsiasi altro Paese. Non è un mistero che Pechino abbia più volte affermato che i Paesi “più ricchi” debbano essere quelli sulle cui spalle dovrebbe gravare maggiormente il peso della decarbonificazione venendo in aiuto economico dei Paesi in via di sviluppo.
Per quanto riguarda una pura questione numerica, la decisione di Trump trova una solida motivazione: l’impegno cinese di raggiungere il picco di emissioni di CO2 nel 2030 è stato considerato dagli addetti ai lavori una blanda tabella di marcia, e ormai è arcinoto che la Cina sia il maggiore contributore delle emissioni di carbonio, con il 28% di quelle mondiali.
Un Paese in via di sviluppo?
Lo snodo fondamentale di questa scelta è però un altro. Secondo la Wto (World Trade Organization), così come per l’Onu, la Cina è considerata ancora oggi un “Paese in via di sviluppo”, categoria per cui sono previste regole meno stringenti sulla riduzione delle emissioni. Una condizione che l’amministrazione americana aveva da tempo messo in dubbio, chiedendo che Pechino fosse classificata come “economia appena sviluppata” venendo così sottoposta agli stessi obblighi dei Paesi sviluppati in materia di emissioni di anidride carbonica. Negli ultimi anni la battaglia sul clima ha assunto un ruolo chiave nel contesto più ampio del confronto commerciale, militare e cyber fra Cina e Usa: più volte Washington ha accusato Pechino di falsificazione dei dati ufficiali, esattamente le stesse accuse rivoltegli durante e in merito all’insorgenza della pandemia.
Se guardiamo poi alla definizione di “in via di sviluppo”, è possibile capire meglio le recriminazioni statunitensi. Con tale locuzione si intende, infatti, un Paese dalle attività industriali limitate, caratterizzato da basso tenore di vita e basso reddito, con povertà diffusa e basso indice di sviluppo umano.
Tenendo a mente questi principi è facile capire che la Cina non può corrispondervi interamente. Pur considerando le profonde differenze interne (esiste ancora una Cina rurale ben diversa da quella delle città sulla costa), il principio della “limitata attività industriale” non può obiettivamente essere applicato, considerando che, con il 40% del Pil esclusivo del settore secondario, l’attività industriale cinese ammonta approssimativamente a 4900 miliardi di dollari: una delle più grandi del mondo.
Per quanto riguarda gli altri criteri risulta più complicato dare una risposta univoca: come accennato esistono profonde differenze interne che fanno sì ci sia una disparità tra il reddito di un abitante di Shangai (equiparabile a quello di un cittadino occidentale) e quello di un contadino dell’interno, e lo stesso principio è valido anche per l’indice di sviluppo umano.
Quindi la Cina è un “Paese in via di sviluppo”? Considerata nella sua globalità diremmo di no, anche alla luce degli sforzi profusi dai piani quinquennali del presidente Xi Jinping volti a combattere la povertà, che sembra stiano ottenendo risultati. Però la Cina è ancora considerata come tale, e il fatto stesso che un membro della Wto possa autocertificare questa posizione, ne rende la sua validità molto opinabile.
Stante questo suo status particolare, la Cina può giustificare ingenti sussidi all’export (ecco spiegata la “concorrenza sleale” di Trump), un’economia non totalmente orientata al libero mercato, e l’impiego di misure volte a intralciare l’ingresso di attività straniere nel mercato interno.
Pechino poi non vuole affatto rinunciare ai privilegi del suo essere un “Paese in via di sviluppo”, che come abbiamo già detto prevedono anche una notevole elasticità sulle restrizioni alle emissioni di anidride carbonica, e pertanto si spiega il perché della decisione trumpiana.
Vecchi problemi per un nuovo corso
La nuova amministrazione americana dovrà quindi affrontare, inevitabilmente, la medesima problematica – stante il fatto che ancora oggi la Cina non intende rinunciare a questo status – ed il rischio, se si dovesse giungere a un accordo sul clima che prevede il ritorno senza ulteriori condizioni degli accordi di Parigi, è quello di trovarsi ad avere nuovamente una disparità di trattamento su basi aleatorie che farebbe solamente il gioco di Pechino: dissanguare l’avversario e aumentare la propria forza al tempo stesso.
Del resto lo stesso obiettivo di “neutralità carbonica” entro il 2060 fissato dal presidente Xi Jinping, sembra, oltre che molto lontano nel tempo rispetto agli obiettivi statunitensi, molto difficile da realizzare stante appunto la decisione di aumentare la produzione di energia da carbone fossile sino al 2030.
Esiste poi un fattore per nulla secondario che potrebbe vanificare gli sforzi del presidente Biden verso la sua green economy. Un fattore che dipende – ancora una volta – strettamente dalla Cina: quello delle Terre Rare.
Questi minerali molto particolari sono alla base dell’industria ad alta tecnologia che comprende anche quella “verde”: batterie, accumulatori, generatori, celle fotovoltaiche ecc. Il Dragone, oltre a detenere tra i più grandi giacimenti di questi minerali, fornisce il 97% del totale mondiale di questa risorsa in quanto è in grado di riprocessare il minerale grezzo trasformandolo in sfruttabile, facendone praticamente un monopolio seguito, a larghissima distanza, dagli Stati Uniti.
Gli Usa e le Terre Rare
La Casa Bianca ha già individuato questo problema: a febbraio ha emesso un ordine esecutivo che lancia una revisione completa della catena di approvvigionamento di beni essenziali per gli Stati Uniti – tra cui compaiono le Terre Rare ed il litio – e ordina ai dipartimenti e alle agenzie federali di identificare i modi per proteggerla da un’ampia gamma di rischi e vulnerabilità. Stabilire una serie di catene di approvvigionamento resilienti oltre a proteggere la nazione dalla carenza di prodotti critici, faciliterà anche gli investimenti necessari per mantenere il vantaggio competitivo degli Usa e rafforzerà la sicurezza nazionale, secondo i piani della presidenza.
Sarà però molto difficile mettere in atto quest’ordine, strettamente correlato anche al processo di decarbonificazione e produzione di energia totalmente “verde”, in quanto le risorse minerarie, i giacimenti, non sono mobili, ed esistono solo due modi per accaparrarsele: stringere legami con le nazioni che hanno ingenti depositi, oppure intervenire manu militari per poter controllarne la produzione.
Qualcosa che sta accadendo oggi – come già detto in passato – nella Repubblica Democratica del Congo, dove sono presenti, non a caso, uomini del gruppo Wagner russo, e qualcosa che è già accaduto in Afghanistan, un Paese che, insieme a Bolivia, Cile, Australia, Usa e Cina, possiede le maggiori riserve di litio del mondo.