“Per la prima volta nella mia vita ho capito davvero cosa significa essere curdo”. Non dimenticherò mai le parole con cui il giovane regista Keywan Karimi, parlando con me, aveva commentato la sua condanna a febbraio: un anno di carcere e 223 frustate a causa dei suoi film.Ma non è l’unico. Sono molti i curdi imprigionati e condannati a morte ogni anno in Iran, spesso a causa della loro militanza politica. Cinque le esecuzioni anche questo maggio, nella città di Urmia. Sempre più frequenti, di recente, anche le proteste e gli scontri fra miliziani curdi ed esercito, in un lento crescendo che sta riportando in primo piano un nodo irrisolto della politica iraniana.Meno nota di quella in Siria, in Iraq e in Turchia, la questione curda in Iran ha radici profonde che precedono la nascita della repubblica islamica e la rivoluzione del 1979. L’insorgere delle istanze autonomistiche curde e lo scontro con lo stato iraniano iniziano già all’epoca degli scià della dinastia Pahlavi, quando era il nazionalismo – e non l’islam – il principale collante ideologico del Paese.Stimati fra i quattro e i sette milioni, i curdi sono secondi solo agli azeri, fra le varie minoranze dell’Iran. Più di ogni altro gruppo etnico o religioso del Paese, appaiono politicizzati e determinati a battersi per la loro autonomia. Quasi impossibile incontrare, in Iran, un membro di questa minoranza che sia indifferente alle aspirazioni della propria gente e alla sua storia di lotte. Un sogno che per molti di loro sconfina in quello irredentista di una patria curda unita. Questo anche causa dalle ultime vicende in Iraq e in Siria, dove i curdi controllano un grande territorio, e dalla lotta armata sempre più dura contro l’esercito turco.Sullo sfondo, una situazione socio-economica segnata nelle regioni curde dell’Iran da povertà, sottosviluppo, disoccupazione e – come denunciano gli stessi curdi – anche da una sistematica discriminazione sociale. Alla questione nazionale si intreccia poi quella religiosa: oltre la metà dei curdi iraniani sono infatti sunniti, e questo – in un paese dove il clero e l’identità sciita hanno un ruolo di primo piano nella vita politica – risulta un forte handicap. Ricordo come un amico curdo iraniano – che ora lavora in un’università inglese – parlandomi dei suoi progetti di lasciare l’Iran dicesse di sentirsi doppiamente straniero in patria: in quanto curdo e in quanto sunnita.Una questione centrale, quella della rapporto fra Teheran e i curdi, sulla quale si gioca non solo il futuro di questa minoranza, ma anche quello dell’Iran. Lo ha capito bene il presidente iraniano Rohani, che proprio in questi giorni è tornato a visitare i territori del Kurdistan iraniano. E proprio da parte del suo governo – più aperto di altri alle rivendicazioni delle minoranze – non sono mancate, di recente, alcune importanti concessioni. Prima fra tutte, quella sull’utilizzo della lingua curda che – come annunciato nel viaggio presidenziale dello scorso anno – è ora possibile insegnare per la prima volta nell’Università del Kurdistan, a Sanandaj, oltre che nelle scuole superiori.Ma non basta, e gli investimenti nell’economia della regione e nelle infrastrutture promessi in campagna elettorale da Rohani non hanno dato i frutti sperati. Ed ecco allora che – grazie al supporto logistico e finanziario offerto dai curdi oltre confine – la lotta armata torna a presentarsi come un’opzione aperta, in modo sempre più pressante. A inizio maggio, scontri fra miliziani curdi e Pasdaran iraniani nei pressi Sardasht hanno fatto diversi morti, e secondo testimoni locali per avere la meglio le forze iraniane sono ricorse all’uso di elicotteri.Un ulteriore segnale d’allarme che, in un Iran circondato da conflitti sempre più esplosivi, rischia di mettere in pericolo la stabilità del regime degli ayatollah. 

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