Per un lungo periodo, dopo la fine della Guerra Fredda, gli Usa sono stati l’unica superpotenza presente nel globo. Il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, ha permesso a Washington, attraverso la globalizzazione e l’ordine internazionale liberale, di plasmare il mondo a sua immagine e somiglianza. Con il risveglio dell’orso russo e, soprattutto, con l’emergere della Cina, l’unipolarismo che ha contraddistinto la politica internazionale è ormai un ricordo e si va verso un ordine di tipo multipolare, nel quale Washington e Pechino rischiano di entrare in collisione.
Nonostante la fine dell’unipolarismo, gli Stati Uniti rimangono la superpotenza militare da battere con degli strumenti di dominio formidabili. Dal punto di vista della sicurezza, gli Usa hanno potente Dipartimento di sicurezza, agenzie di intelligence capaci di intercettare i pericoli in tutto il mondo; hanno speso trilioni di dollari per un sofisticato arsenale nucleare capace di dissuadere qualsiasi Paese nemico dall’attaccare direttamente la madrepatria degli Stati Uniti.
Hanno però un punto debole, come spiega il professor Stephen M. Walt , docente all’Università di Harvard nella sua analisi pubblicata sull’autorevole Foreign Policy: sono particolarmente vulnerabili all’influenza di lobby e governi stranieri. E non stiamo parlando di hacker russi o dell’inchiesta flop del Russiagate.
“Gli Stati Uniti vulnerabili alle influenze dei governi stranieri”
È ironico, sottolinea Stephen M.Walt, che nonostante tutti gli sforzi e le risorse che gli Stati Uniti investono nella difesa contro le intrusioni straniere, che siano “il sistema politico più permeabile della storia moderna” aperto “all’interferenza straniera in una varietà di modi legittimi e illegittimi”. Niente bot o hacker russi, sottolinea l’esperto e autore del celebre saggio The Hell of Good Intentions: America’s Foreign Policy Elite and the Decline of U.S. Primacy (Just World Books, 2018): “Sto parlando di governi stranieri o di altri interessi che usano una varietà di strategie per modellare le percezioni degli americani e persuadere il governo degli Stati Uniti a fare delle cose che potrebbero non essere nell’interesse generale degli stessi Usa”.
Walt non si riferisce, naturalmente ai canali della diplomazia ufficiale: ma a delle potentissime lobby straniere che “comprano” deputati e senatori a suon di milioni di dollari. E fa degli esempi concreti: “Randy Scheunemann, cittadino della Beltway, era sia un lobbista pagato dal governo della Georgia che un assistente di politica estera del defunto senatore repubblicano John McCaindurante la sua campagna presidenziale del 2008″, il che potrebbe aiutare a spiegare perché “quest’ultimo era un convinto difensore della Georgia durante la sua guerra del 2008 con la Russia”.
Le lobby straniere negli Stati Uniti
Le lobby straniere si comprano le simpatie di democratici e repubblicani in maniera assolutamente bipartisan. Basti pensare all’ex governatore del Vermont e il presidente del comitato nazionale democratico Howard Dean e a repubblicani come l’ex sindaco di New York Rudy Giuliani o l’attuale Consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton: tutti schierati con i “Mojahedin del Popolo Iraniano” (Mek), gruppo di esiliati iraniani già nell’elenco delle organizzazioni terroristiche del Dipartimento di Stato dal 1997 al 2012.
“Il Mek – sottolinea Walt – è disprezzato in Iran per la sua passata collaborazione con Saddam Hussein, ma ciò non ha impedito all’organizzazione di reclutare una vasta schiera di americani di spicco” molti dei quali hanno ricevuto dei lauti compensi per il loro sostegno”.
E non finisce qui. Perché negli Usa i governi stranieri, corporazioni e movimenti di opposizione possono anche assumere aziende di pubbliche relazioni e lobbisti professionisti per ripulire la loro immagine pubblica, fare pressione sui politici e cercare di convincere gli americani influenti a considerarli come partner preziosi. È il caso della potentissima lobby dell’Arabia Saudita.
La potente lobby saudita
La morte del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi ha portato alla luce la quantità di dollari che l’Arabia Saudita ha investito a Washington negli ultimi anni. Come riporta il Time, i sauditi hanno versato denaro nelle lobby per decenni, ma le risorse investite dal regno sono drasticamente sotto l’amministrazione Trump.
Secondo i dati compilati dal Center for International Policy, il governo saudita ha speso 10 milioni di dollari per attività di lobby nel 2016. Nel 2017 questo numero era quasi triplicato, aumentando fino a quasi 27 milioni di dollari. “I sauditi hanno avuto una relazione piuttosto tesa con Obama”, ha spiegato Freeman, presidente del Center for International Policy, sottolineando che i sauditi non erano felici dell’accordo sul nucleare con l’Iran. “Ma con Trump penso che abbiano visto l’opportunità di un ripristino piuttosto importante nelle relazioni Usa-Arabia Saudita”.
Per OpenSecrets, nel solo 2017 le lobby straniere – circa 412 – hanno investito a Washington 882.234.012 dollari. Il governo che spende di più in attività di lobbying è la Corea del Sud (82,831,439 dollari), seguita da Giappone (65,173,014 dollari) e Israele (63,546,052 dollari). A seguire Irlanda, Emirati Arabi, Isole Marshall, Arabia Saudita, Cina, Canada e Bahamas.