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È Joe Biden o Donald Trump? La domanda inizia a circolare con una certa insistenza nelle cancellerie europee e nei salotti che per molto tempo avevano dipinto il presidente democratico degli Stati Uniti come colui che avrebbe ricucito la frattura tra le due sponde dell’Atlantico. Perché le prime decisioni prese da Biden in politica estera non rappresentano affatto quella discontinuità che ci si aspettava dalla Casa Bianca sotto la nuova amministrazione. Certo, i detrattori di Trump hanno tirato un sospiro di sollievo rispetto a quella irruenza e mancanza di diplomazia tipica dell’ex tycoon. Ma salvate le forme, la sostanza sembra essere decisamente ben poco simile alle (rosee) aspettative di chi credeva che lo slogan “America is back” significasse un rinnovato spirito di cooperazione in Occidente.

L’alleanza annunciata nei giorni scorsi tra Stati Uniti, Regno Unito e Australia segna inevitabilmente uno spartiacque. La tensione tra Parigi e Washington è evidente. E se Emmanuel Macron può certamente ritenersi lo sconfitto di questo accordo su tecnologie, intelligence e vendita di sottomarini (che cancella l’accordo siglato tra Parigi e Canberra dal valore di decine di miliardi), dall’altro lato è tutta l’Europa a domandarsi se in fondo non sia stata vittima di un abbaglio. Coloro che ritenevano fondamentale l’avvento di Biden per scongiurare un nuovo capitolo di “isolazionismo” trumpiano, si sono ritrovati di fronte un presidente che non solo ha concluso un accordo senza avvertire la Commissione europea (questo almeno quello che dicono da Bruxelles), ma senza nemmeno comprendere l’enorme perdita di denaro per l’industria di un alleato. Anzi, l’aver concluso un patto in cui il Regno Unito post-Brexit ha un ruolo fondamentale dimostra semmai l’assoluta centralità della special relationship anglo-americana rispetto a ipotetiche unità di intenti transatlantiche in chiave filo-europea.

Il messaggio arrivato da Canberra, Londra e Washington è stato chiarissimo. E se è vero che il governo Usa ha tenuto a ribadire la stretta relazione con la Francia, è chiaro a tutti che la proiezione nell’Indo-Pacifico degli Stati Uniti ha un significato soprattutto dell’Anglosfera. Dai Five Eyes (i Cinque occhi corrispondenti a Usa, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Regno Unito) ad Aukus (l’alleanza tripartita siglata questa settimana) l’immagine è quella di un’America che guarda a ovest e che non aspetta l’Europa. E l’Europa, che ha tentato di costruire una (debolissima) strategia per l’Indo-Pacifico, non solo si è mossa in ordine sparso seguendo proprio gli Stati Uniti, ma ha anche avuto la poco simpatica coincidenza di presentare i suoi piani il giorno dell’annuncio dell’asse tra Canberra, Londra e Washington. Ironia della sorte che forse conferma ancora una volta la debolezza di Bruxelles e dei singoli Paesi membri di fronte a una sfida così epocale come quella asiatica, e non solo Indo-Pacifica.

Il segnale di questa convergenza tra debolezza Ue e disinteresse da parte di Biden sul fronte asiatico si era del resto già fatta presente durante il ritiro dall’Afghanistan. Tutti i governi europei hanno tenuto a ribadire di essere stati colti di sorpresa dall’unilateralismo dimostrato dalla Casa Bianca e dal Pentagono. E non è un caso che si siano tutti quanti interrogati su una difesa comune che riuscisse in qualche modo a far parlare l’Europa a una sola voce. Autonomia strategica è diventata la parola d’ordine. Ma se è soprattutto nato come reazione agli Stati Uniti, fa riflettere che queste mosse arrivino da quell’amministrazione incensata già a priori come panacea di tutte le “malefatte” di Trump. Tema che dovrebbe portare molti a evitare spesso inutili idealizzazioni: ogni presidente è in grado di cambiare nettamente la politica di un Paese, ma le strategie a lungo termine sono spesso molto più importanti di quelle imposte in un singolo programma elettorale o in slogan da distribuire ai giornali. Biden non fa eccezione alla regola.

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