I Paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia) non rappresentano affatto un monolite nel contesto europeo, dato che l’unità sul tema delle migrazioni si accompagna a diverse visioni di politica estera ed interna, ma possono essere accomunate da una serie di minimi comuni denominatori di matrice economica.
I Paesi del gruppo Visegrad hanno sperimentato nel 2017 tassi di crescita del Pil compresi tra il 3 e il 3,8%, a cui invero hanno contribuito le distribuzioni di fondi di coesione comunitari, e convergono in numerose dinamiche: tutti e quattro, infatti, fanno dell’inserimento delle loro imprese nella catena del valore della Germania un punto di forza ma, al contempo, sperimentano le criticità legate all’andamento demografico sfavorevole e alla stagnazione dei salari e dei livelli di consumo interni.
Mentre, per ora, la cooperazione con la Cina nell’ambito della “Nuova Via della Seta” e del gruppo di contatto 16+1 appare un’ipotesi di prospettiva, lo stretto legame economico con la Germania è una realtà di primaria importanza per i Paesi Visegrad. “La delocalizzazione produttiva tedesca in questi Paesi ha assunto in effetti negli anni connotati simili a quelli dello stabilimento delle maquilladoras statunitensi in Messico”, ha scritto Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni Internazionali alla Cattolica di Milano, sull’ultimo numero di Formiche. “L’asse tra Berlino e Visegrad non sembrerebbe minacciato neanche dalle divergenza tra i governi del gruppo e l’esecutivo della Merkel”, perché le delocalizzazioni tedesche sono considerate da entrambe le parti asset troppo importanti perché una delle due parti vi rinunci.
Semmai, come ha scritto su Limes Lucio Caracciolo, ciò che i Paesi Visegrad temono “la latente tentazione tedesca a elevare a geopolitica la superiorità geoeconomica” della Germania, e di conseguenza ciò porta l’Ungheria di Viktor Orban e la Polonia conservatrice a cercare una sponda, rispettivamente, nella Russia e negli Stati Uniti.
In questo contesto, la demografia rappresenta un fattore di preoccupazione per i partner centroeuropei. Uno studio dell’European Environment Agency sui trend della popolazione europea fino al 2100 ha mostrato come i Paesi di Visegrad abbiano una demografia tra le meno favorevoli di tutto il continente. La tendenza è di una diminuzione della popolazione del 13% entro il 2050, più contenuta dei tracolli drammatici a cui sembrano andare incontro Paesi come la Bulgaria o la Grecia, ma che letta in correlazione coi bassi tassi di disoccupazione (3-4%) porta a rendere ipotizzabile il fatto che Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria abbiano scarse riserve di manodopera inattiva da mobilitare per coprire i vuoti negli organici che si fanno via via più ampi. Mancano operai ed impiegati, ma anche contadini ed artigiani.
E come sostiene il Sole 24 Ore, “secondo i calcoli di Coface, un’agenzia francese di credito all’esportazione, i quattro Paesi del blocco Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria) contano un totale di oltre 520mila posizioni vacanti nel secondo trimestre 2018 in settori come industria, servizi e costruzione”.
Come risolvere una problematica di tale portata? Il richiamo in patria della massa di lavoratori centroeuropei oggi residente nell’Europa occidentale è reso impossibile dalla scarsa attrattività dei Paesi Visegrad in quanto a stipendi e tenore di vita. “La fuga di milioni di cittadini verso i mercati continentali è nata, all’inizio degli anni ’90, dall’opportunità di capitalizzare le proprie competenze in uno scenario più florido di quello abbandonato alle spalle. Quasi 20 anni dopo, la situazione sembra rimasta identica. Dati Eurostat riferiti al 2014, l’ultimo anno a disposizione, mostrano che la paga media lorda oraria nel settore industria, costruzione e servizi viaggia sui 5,6 euro l’ora in Polonia, 5,3 euro in Repubblica Ceca e Slovacchia e 4,8 euro in Ungheria. Nell’Unione europea si alza a oltre 15 euro, in Gran Bretagna l’asticella supera i 18 euro. Nella sola Polonia, nel 2015, lo stipendio medio netto di un adulto senza figli si aggira sui 4.645 euro, per scendere a a 3.350 nel caso dell’Ungheria. Nell’Ue la media cresce sopra i 13.700 euro annui”.
Non risulta praticabile, in questo contesto, la proposta di economisti come il polacco Grzegorz Sielewicz di considerare l’apertura a un numero crescente di migranti da parte dei Paesi Visegrad. Al di là della concezione dei migranti come membri del marxiano “esercito industriale di riserva” e non come persone dotate di dignità umana che questo pensiero impone, bisogna ricordare che l’approccio dei Paesi Visegrad alle migrazioni non è, se non in misura marginale, motivato da ragionamenti di natura economica. Paesi caratterizzati da una forte omogeneità politica-culturale in cui la caduta del comunismo ha ridestato un senso di appartenenza patriottica rimasto compresso per mezzo secolo, i Paesi del Gruppo Visegrad sono stati del resto condizionati dagli atteggiamenti dei regimi satelliti di Mosca, che restrinsero i movimenti dei propri cittadini, conservandone isolato il blocco e preservandone l’omogeneità etnica.
Se a ciò si aggiunge il timore di qualsivoglia ingerenza esterna, e la richiesta di Bruxelles di un’adesione al piano di ridistribuzione di migranti controllato a livello centrale è considerata tale, si capisce perché la proposta di Sielewicz è destinata a cadere nel vuoto nei Paesi Visegrad. Che, del resto, sconteranno nei prossimi anni le contraddizioni di un modello di sviluppo ancora da perfezionare, che fatica a orientarsi verso il rafforzamento del benessere della popolazione dei quattro Paesi.