Un timore aleggiava nelle cancellerie internazionali più ostili alla Russia di Vladimir Putin dopo la sostanziale evaporazione della maggioranza di governo italiana che ha portato all’annuncio delle dimissioni di Mario Draghi: quello di perdere l’Italia nella causa del sostegno all’Ucraina.

Addio a Draghi, garante atlantico

Nella serata del 20 luglio filtravano molte notizie dagli ambienti del Dipartimento di Stato Usa volti a rassicurare sui legami transatlantici e sulla fiducia nella leadership di Draghi. Ma soprattutto a pesare sono sembrate le dichiarazioni di un funzionario di alto profilo come Charles Kupchan, direttore per l’Europa nella Casa Bianca di Obama, per il quale la caduta di Draghi “infligge un duro colpo all’Italia, alla Ue e alla coalizione transatlantica che ha sostenuto l’Ucraina di fronte all’aggressione russa”, come ha dichiarato a Repubblica. La leadership di Washington “garantirà un continuo lavoro di squadra transatlantico per aiutare gli ucraini a difendersi. Ma l’instabilità politica in Italia invia un segnale preoccupante sulle sfide per mantenere la solidarietà dell’Occidente tra l’inflazione, la carenza di energia e altri problemi economici esacerbati dalla guerra”.

Il sottotesto del messaggio, aleggiante già in questi giorni in Italia, è quello di una mano russa nella crisi. Prontamente negata, oggigiorno, da Mosca. “Cosa c’entra la Russia?”. Questa la prima reazione della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, ad una domanda sulle dimissioni del governo Draghi. “Non solo commentatori e blogger, ma anche responsabili politici italiani collegano i cambiamenti politici interni alla Russia e alla politica estera. Questo mi meraviglia, questo ci ha scioccato”, ha aggiunto la portavoce.

A prescindere che la Russia c’entri o meno, va detto che politicamente Kupchan esprime un timore comprensibile, dato che Washington si trova di fronte a una serie di pressioni notevoli tra i propri alleati. Caduto il governo di Boris Johnson nel Regno Unito e incerte le adesioni di Francia e Germania al fronte del contenimento anti-russo, Draghi appariva un perno stabile, assieme al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, dell’allineamento atlantico dell’Italia e, anzi, aveva fatto gli straordinari in termini di opposizione a Mosca. Spesso in maniera scomposta, soprattutto quando a parlare era Luigi Di Maio, ma altrettanto frequentemente colpendo in forma precisa e chirurgica, soprattutto sul fronte energetico.

Il timore di Washington è che l’Italia senza Draghi possa, in prospettiva, essere persa al fronte del contenimento anti-russo per la caduta di Draghi ma, a ben vedere, tali preoccupazioni risultano esagerate. In primo luogo perché non sono i destini personali del premier a fare la differenza. In secondo luogo, per la composizione del sistema politico italiano. Infine, perché i trend politici del Vecchio Continente remano, a prescindere, contro il contenimento a tutti i costi.

Timori eccessivi?

Analizziamo il primo punto. Draghi ha indubbiamente fatto dell’atlantismo la Stella Polare del Paese, soprattutto nel confronto con attori come Russia e Cina, da ben prima dell’inizio della guerra. Ma in tal senso la sua agenda è stata condivisa da un’ampia costellazione politica. Giancarlo Giorgetti, ministro dello Sviluppo Economico in quota Lega, l’ex pentastellato Di Maio, titolare degli Esteri, e Lorenzo Guerini, ministro della Difesa del Partito Democratico, hanno garantito a tale visione un sostegno deciso con azioni e scelte concrete. E certamente non si può discutere l’adesione al campo atlantico di formazioni come Italia Viva e Forza Italia che hanno convintamente appoggiato l’esecutivo dal febbraio 2021 ad oggi. L’applicazione della dottrina presidenziale di Mattarella e l’ascesa di Draghi hanno suonato la carica del ralliement tra queste tendenze presenti nelle forze politiche, di cui il governo Draghi è stato più conseguenza che causa.

In secondo luogo, lo spettro politico italiano si è in larga parte adeguato a questi trend dopo la tempesta d’Ucraina. I distinguo sulla guerra in Ucraina di due membri di peso della maggioranza, Giuseppe Conte e Matteo Salvini, non sono tali e tanto ampi da lasciar pensare a un ampio tracollo del consenso italiano per le critiche a Mosca. Specie considerato il fatto che in entrambe le formazioni una vasta componente pro-Nato e pro-Usa esiste e che in ogni caso le posizioni eterogenee sono ampiamente compensate da Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia che hanno profondamente incentivato la strategia anti-russa del governo Draghi. Ed essendo Fdi formazione candidata a un ruolo primario nell’imminente voto e in possibili posizioni di governo, resta certamente attuale la linea tracciata dall’ex ministro della Difesa e colonnello del partito, Ignazio La Russa, che in Senato ha fortemente appoggiato la linea di sostegno all’Ucraina.

Quello che gli Usa dovrebbero tenere in mente, piuttosto, è l’evoluzione della linea europea sotto il gancio della crisi energetica che potrebbe scatenarsi a ottobre in caso di rottura dei rapporti energetici con Mosca. Il vero fronte tra Occidente e Mosca su cui l’Europa appare, potenzialmente, ventre molle, non ha a che fare direttamente con la scelta di armare gli ucraini ma con le dinamiche della guerra asimmetrica sull’energia che la Russia può muovere. E sulle conseguenze a cascata che hanno prodotto la crisi sociale non affrontata con tempismo da una maggioranza sempre più sfilacciata: caro-bollette, inflazione e tempesta energetica hanno di fatto travolto il governo Draghi e il premier ha voluto scegliere, coscientemente, di passare ad altri il timone di una nave intenta a imbarcare acqua. Il punto di caduta sarà europeo, non solamente italiano, e avrà a che fare con la mediazione tra obiettivi politici comprensibili legati al sostegno a Kiev, la ricerca di una via d’uscita dal conflitto e il rischio di rompersi l’osso del collo sul campo energetico. Vincoli, questi, a cui ogni esecutivo italiano dovrà fare fronte. Draghi o non Draghi, il problema non cambia. E per gli Usa si pone il problema chiave: quanto a lungo l’economia europea potrà reggere come strumento di guerra per procura all’invasore dell’Ucraina?





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