Forse è come sostiene lui, Donald Trump: c’è una grossa persecuzione giudiziaria in atto nei suoi riguardi, anche se è difficile dire da chi potrebbe essere coordinata, dato che ci sono casi in corso sia nello stato di New York, a maggioranza dem, sia in Georgia, dove pur essendoci due senatori democratici a Washington, la maggioranza statale è repubblicana. Ad ogni modo i continui guai giudiziari dell’ex presidente, pur non scalfendone la popolarità nei confronti della base, che anzi continua a vedere in lui un combattente contro l’establishment liberal percepito come ostile all’America profonda, stanno cominciando a creare qualche fastidio a suoi potenziali sostenitori.

I guai giudiziari che mettono nei guai l’ex presidente

Non soltanto perché ormai, pur avendo dominato con facilità il dibattito col pubblico alla Cnn, è difficile dire cosa Trump possa offrire agli indipendenti come visione alternativa di Paese a chi non vorrebbe dare il proprio voto a un presidente come Joe Biden, rivelatosi più radicale del previsto. Un candidato, Trump, che “vende” al proprio elettorato tutto ciò che vuole sentirsi dire, ma che ormai suona come un disco rotto. Ed ha una debolezza che gli viene proprio dalle aule giudiziarie che riguarda un segmento particolare, quello del voto delle donne professioniste che vivono nelle aree suburbane.

Difficilmente saranno convinte da un uomo che difende ancora il suo commento riguardante “afferrare le donne” per il loro organo genitale, emerso da una vecchia trasmissione televisiva o che è stato condannato a pagare cinque milioni di dollari di risarcimento alla giornalista Elizabeth Jean Carroll, che l’ha accusato di averla molestata in un camerino di un grande negozio newyorchese nel 1996. Non si parla di cose astratte per l’elettorato, come pressioni indebite per ribaltare le elezioni o potenziali frodi finanziarie, di cui francamente interessa poco all’opinione pubblica, ma di un atteggiamento che Trump difenderà fino alla fine, com’è nel suo stile aggressivo e scarsamente accomodante.

Chi sono i repubblicani contro Donald Trump

Se i candidati alle primarie repubblicane per le presidenziali del 2024 esitano a criticarlo (con la parziale eccezione dell’ex governatore dell’Arkansas Asa Hutchinson, che però ha possibilità quasi nulle di prevalere), lo stesso non si può dire dei senatori. Il leader del raggruppamento repubblicano Mitch McConnell, lo sappiamo, non sopporta l’ex presidente, con il quale non parla ormai da anni. Non ha rilasciato dichiarazioni, perché non ce n’è bisogno. Cosa che invece ha fatto il suo vice John Thune, del South Dakota, dicendo che Trump probabilmente costerà ai repubblicani il voto degli indipendenti. E senza di loro non si vince.

Non stupisce nemmeno l’uscita di Mitt Romney: l’ex candidato alle presidenziali del 2012, attualmente senatore dello Utah, ha affermato seccamente che spera che anche il popolo americano “giunga alle stesse conclusioni della giuria di New York”. Altri invece, come Kevin Cramer del North Dakota, che pure lo hanno difeso dalle accuse del procuratore distrettuale di New York Alvin Bragg, che ha incriminato Trump per il pagamento di 125mila euro, adesso invece ritiene che qui la questione sia più seria. E persino un ex collaboratrice di Trump, l’ex direttrice della comunicazione della Casa Bianca Alyssa Farah, che ha detto alla Cnn che la sentenza “dovrebbe squalificarlo” automaticamente. Cosa che non avverrà, dato il precedente di Eugene Debs, candidato socialista alle presidenziali del 1920 quando era detenuto per sovversione.

Questa stanchezza però non si rispecchia nella base, che continua ad amarlo. E questo paradossalmente disegna una parabola ben definita, che lo accomuna con altri leader molto diversi da lui, come ad esempio Bernie Sanders: molto apprezzato dai militanti, detestato da tutti gli altri. Una debolezza che Trump probabilmente accentuerà, varando un programma estremista che prevede, tra le altre cose, la potenziale uscita dalla Nato. Senza contare che difficilmente l’ex presidente può fornire una visione nuova di Paese, così come Joe Biden, che però dalla sua ha il vantaggio dell’essere il presidente in carica. E di aver arginato una possibile deriva estremista dei dem. Cosa che invece Trump ha favorito.

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