Luigi Di Maio incontra John Bolton negli Stati Uniti e prova a rassicurare l’amministrazione americana. Non siamo con Nicolas Maduro, con la Cina soltanto affari ma nessuna alleanza, e sul fronte della Nato il coinvolgimento è totale. Sono queste le garanzie fornite dal leader politico del Movimento Cinque Stelle e vice premier italiano durante il suo tour americano. Un viaggio che doveva rappresentare la presentazione ufficiale di Di Maio all’amministrazione americana e che invece si è rivelato un redde rationem della Casa Bianca verso il ministro, che è arrivato forse in uno dei momenti più bassi dei rapporti fra Roma e Washington.
Inutile negarlo: quel memorandum con la Cina che ha inserito l’Italia nella grande iniziata della Nuova Via della Seta non piace all’attuale governo Usa. E il fatto che anche al Congresso qualcuno abbia chiesto al segretario di Stato Mike Pompeo di discutere della mossa italiana è la dimostrazione che non sia stata una scelta priva di conseguenze. E la conferma è arrivata anche dallo stesso viaggio di Di Maio, visto che il ministro, invece di incontrare solo personalità legate al mondo economico – più affini al suo mandato ministeriale- , ha avuto un incontro con il consigliere per la Sicurezza nazionale. Un segnale abbastanza eloquente dell’importanza strategica dell’Italia per gli Stati Uniti e del valore dato alla decisione di Palazzo Chigi di sfidare l’agenda Trump sulla Cina.
Un incontro che, come sottolineato da La Stampa, può essere visto sotto una doppia luca: “Ha rappresentato un segnale di attenzione verso il vice premier, considerato come un interlocutore chiave, in quanto leader del partito di maggioranza nella coalizione. Nello stesso tempo tuttavia ha sottolineato anche come più dei rapporti economici con l’Italia, alla Casa Bianca premono quelli geopolitici, dove l’intesa non è sempre stata solida negli ultimi tempi”.
Di Maio si è confrontato con Bolton nella veste di colomba, non certo di falco. Perché di fatto ha garantito agli Stati Uniti tutto quello che questi volevano sentirsi dire. “L’alleanza tra Italia e Stati Uniti è solida. Ho spiegato che l’Italia è consapevole che deve collaborare con gli alleati per difendere le infrastrutture da rischi e minacce” ha detto il vice premier. Sulla Via della Seta, Di Maio ha ricordato che “l’accordo con la Cina è solo una cornice trasparente per i futuri accordi commerciali, e lo abbiamo fatto prima di altri Paesi europei. Non c’è nessuno scambio e nessun baratto. E non ci sono pressioni da parte degli Usa o toni da tribunale o processo”.
Una frase che lascia il tempo che trova visto che le pressioni ci sono state eccome. A tal punto che molti da Washington speravano che saltasse direttamente il memorandum. Mentre sul fronte venezuelano, Di Maio, pur ribadendo che il governo non se la sente di riconoscere Guaidò, ha però confermato che “non riconosciamo neppure la validità delle ultime elezioni presidenziali vinte da Maduro, e riteniamo che si debba tornare al voto in maniera legale e trasparente”.
L’impressione è che Di Maio sia andato negli Stati Uniti con l’obiettivo di fare in modo che il Movimento, più che il governo giallo-verde, non fosse riconosciuto come una sorta di “cavallo di Troia” della Cina. Il vice premier, dopo la firma in pompa magna del memorandum con Xi Jinping, doveva dimostrare a Washington di essere perfettamente in linea con l’occidente. Ma su questo punto, la Casa Bianca e gli strateghi Usa appaiono contrariati. La Lega, mostrando apertamente il proprio distacco rispetto alla Via della Seta, ha cercato di raddrizzare il tiro di Palazzo Chigi. E gli incontri di Giancarlo Giorgetti in America, oltre che la linea politica di Matteo Salvini, hanno garantito il sostegno dell’amministrazione Usa al Carroccio.
Il viaggio di Di Maio doveva essere lo strumento del ministro per scalfire l’asse Trump-Lega: ma le ultime mosse pentastellate rischiano di essersi rivelate un clamoroso errore di calcolo in vista delle Europee e di una possibile crisi di governo che, come riporta Dagospia, qualcuno inizia a paventare anche tra i grandi fondi d’investimento americani a Milano.