Nel suo primo post da ministro degli Esteri, Luigi Di Maio ha abbozzato una dichiarazione programmatica che dovrà guidare l’intero operato della Farnesina nei mesi a venire. Delle “linee guida”, come lui stesso le definisce, nelle quali si parla di migrazioni, relazioni con le economie emergenti ed Africa.
Quest’ultimo punto risulta particolarmente interessante, non solo perché strettamente legato ai due che lo precedono, ma anche perché esplicitamente rivolto a una realtà geografica, quella africana, spesso poco citata o sottovalutata dai recenti titolari del dicastero. Tra il parlare e l’agire vi è però un abisso. E le dichiarazioni di Di Maio dovranno necessariamente scontrarsi con una realtà fatta di sfide e questioni estremamente spinose.
Un’opportunità da sfruttare, ma con cautela
L’Africa non è una preoccupazione, ma un’opportunità “per individuare nuovi partner strategici attraverso i quali incrementare lo sviluppo e la crescita del nostro Paese”: un concetto che Di Maio ha voluto ribadire nel suo primo messaggio diretto agli ambasciatori.
In questo, il ministro pentastellato sembra aver già raccolto il plauso di Christophe Chalencon, il leader dei gilet gialli che, tuttavia, avverte: “Condivido la visione di Di Maio al 300%, ma va da sé che ciò gli provocherà non poche frizioni con il governo e le imprese francesi”. Frizioni tutt’altro che ignote al nuovo titolare della Farnesina, già in passato protagonista di attriti con l’Eliseo a causa dei suoi legami con lo stesso movimento dei gilets jaunes.
Chalencon non sbaglia a mettere in guardia Di Maio, perché tra i temi caldi che coinvolgono la politica estera italiana vi è la questione del “dossier libico“. In questo caso, il ministro dovrà assolutamente tentare di non ripetere l’esempio della Conferenza di Palermo indetta dal premier Conte lo scorso ottobre, summit conclusosi sostanzialmente in un grosso flop: è invece necessario che Di Maio sia capace di prendere una posizione netta e non nebulosa come fatto invece in passato, quando richiamava al dialogo le parti coinvolte nella crisi di Libia “con la necessità di coinvolgere anche attori quali Russia ed Egitto”. Un appello caduto nel vuoto, che in più aveva fatto storcere più di un naso a Parigi, da sempre sul chi va là nei confronti di chiunque si inserisca in quella che Macron e i suoi predecessori ritengono una vera e propria “sfera di influenza”. Di fatto, i primi appelli di Di Maio in qualità di ministro degli Esteri sembrano improntati all’apertura indiscriminata nei confronti di tutti i Paesi, ma senza un piano ben preciso e con una volontà – a dire il vero parecchio opaca – di elevare l’Italia al ruolo di interlocutore versatile e, perché no, avvantaggiato in particolare nell’ottica di relazioni economiche e commerciali con i Paesi africani. Ma il quadro è ben più complesso.
L’Italia parte svantaggiata
L’Africa, che Di Maio giustamente indica come un continente dalle mille opportunità strategiche, è da tempo al centro delle mire di tutte le maggiori potenze mondiali, non solo la Francia.
Pensiamo alla Cina, che in Africa sta di fatto conducendo un programma di espansionismo economico e infrastrutturale, o alla Russia, che sta concentrando i suoi sforzi su una politica di accordi militari in almeno 13 Paesi diversi. Il Giappone, dal canto suo, è in gioco sin dagli anni Novanta grazie al suo avanzato know-how tecnologico, e gli Stati Uniti, seppur rallentati dalla politica “friendly countries first” del presidente Donald Trump, non mancano di spingere per avere la loro fetta di torta. L’Italia dovrà necessariamente fare i conti con questo e superare i proclami del ministro uscente Enzo Moavero Milanesi per mettere seriamente in pratica un programma di aiuti e sviluppo economico nell’area africana. Una regione che si annuncia come particolarmente interessante è il Corno d’Africa: non solo per i legami storici con la nostra Penisola, ma anche per la forte voglia di modernità e rinnovamento espressa dai Paesi che la compongono, dall’Etiopia all’Eritrea, passando per Gibuti, dove ha sede una base militare italiana recentemente oggetto di visita da parte del ministro uscente della Difesa Elisabetta Trenta.
Anche qui, tuttavia, non mancano i “ma”: tutte queste nazioni sono soggette a frequenti capovolgimenti sociali e politici, e l’instabilità dei loro governi (o, nel caso dell’Eritrea, di un vero e proprio regime) sono ulteriormente alimentate dalla presenza di interlocutori famelici e aggressivi come i Paesi del Golfo, che vedono nel Corno d’Africa una rampa di lancio per gestire il conflitto in Yemen, oltre che una sorta di Eldorado per l’importazione di manodopera a basso costo. Con loro, e con la crescita vertiginosa della loro influenza in campo economico, dovrà fare i conti Di Maio.
“Superare Dublino”
C’è poi il nodo relativo ai migranti. Nel suo messaggio agli ambasciatori Di Maio parla della necessità di “responsabilizzare l’Europa”, superando al tempo stesso la Convenzione di Dublino: un accordo concernente l’esame delle richieste d’asilo che, a dirla tutta, risulta obsoleto da tempo, risalendo al 1990 (l’entrata in vigore è invece del 1997). Ma il nostro ministro non è certo il primo a parlare di una revisione del documento: già nel 2015 la Germania aveva deciso di sospenderne temporaneamente l’efficacia, mentre da tempo i Paesi che compongono il Gruppo di Visegrad ne chiedono l’annullamento o il blocco. Non è chiaro cosa intenda Di Maio a questo proposito: “superare Dublino” può essere letto in un’ottica duplice, sia che lo si voglia di fatto abrogare o che si cerchi al contrario di installare una politica dell’accoglienza ancora più radicale e inclusiva, tema tutt’altro che sconosciuto al giovane ministro. Non stupisce, dunque, che Di Maio associ questo suo pensiero all’Africa, continente che al di là delle opportunità economiche rappresenta anche uno dei principali fronti migratori del pianeta. Sembrerebbe quindi, a giudicare da quanto detto finora, che la Farnesina a gestione pentastellata voglia in qualche modo assurgere al rango di “jolly” che, attraverso la cooperazione multilaterale con le nazioni africane, possa ottenere vantaggi economici per sé da una parte e una limitazione dei flussi di migranti verso la nostra costa dall’altra. “Aiutiamoli a casa loro” in salsa giallorossa? Presto per dirlo, ma una cosa è certa: con un programma così di massima, e senza una chiara traccia da seguire, le premesse sono tutt’altro che promettenti, e rischiano di smuovere le acque per l’Italia nel peggior modo possibile.