La Libia è divenuta di fatto il secondo fronte dell’Isis, dopo la Siria, nel jihad globale del Califfato. Inoltre, l’instabilità libica da anni è terreno fertile per il traffico di esseri umani verso l’Europa, e rischia di allargarsi ai Paesi vicini, come la Tunisia e l’Egitto, ponendo una seria minaccia alla sicurezza globale. Ecco perché un intervento in Libia è ritenuto indispensabile dalla comunità internazionale.
Ma l’invio effettivo di stivali occidentali sul terreno presenta ancora molti punti interrogativi. Il principale, è quello legato al caos presente sul territorio, che un eventuale intervento occidentale rischierebbe di radicalizzare ulteriormente. Dopo la “primavera” araba libica e il rovesciamento di Gheddafi, infatti, per il Paese non è mai arrivata l’“estate”, anzi. Il processo di costruzione dello Stato in Libia non è mai partito, ed ha attraversato un lungo “inverno” di cinque anni, in cui le fratture etniche e tribali già presenti si sono moltiplicate, radicalizzate, e trasformate in una pletora di milizie, spesso legate all’una o all’altra formazione, da vincoli labili, dettati dalla contingenza e soprattutto dalla volontà di acquisire maggiore potere sul territorio. Secondo la Bbc le formazioni armate che operano attualmente in Libia sarebbero circa 2 mila .
Tobruk e Tripoli
La frattura più grande è quella tra i due parlamenti rivali, emersi dal fallimento del processo di costruzione statuale nel Paese dopo l’intervento Nato del 2011: il governo laico in esilio a Tobruk, in Cirenaica, riconosciuto dalla comunità internazionale, e quello islamico insediatosi a Tripoli dopo la sconfitta alle elezioni del 2014. Al loro interno, Tripoli e Tobruk, non sono due blocchi monolitici, ma delle compagini che rispondono, sul territorio, a milizie con le quali le alleanze sono instabili. Ed è questo uno dei motivi per cui i due parlamenti non riescono ancora a trovare un accordo sul governo di unità nazionale del premier designato dalle Nazioni Unite, Fayez Al Sarraj, che dovrebbe autorizzare l’intervento della comunità internazionale.
Al governo di Tobruk, che continua a negare il proprio sostegno all’esecutivo nascente, sono legate le milizie che hanno partecipato alla campagna militare contro i jihadisti del generale Khalifa Haftar. Tra queste ci sono l’Esercito libico, al suo interno diviso tra i miliziani fedeli ad Haftar e quelli fedeli al suo rivale al-Obaidi. E soprattutto le milizie di Zintan, circa 30mila combattenti operanti nell’omonima città della Tripolitania, che costituiscono un importante avamposto ed enclave di Tobruk nella regione controllata dalle milizie alleate al governo islamico di Tripoli. Poi ci sono le milizie tribali: gli ex lealisti di Gheddafi appartenenti alle tribù Warfallah e Warshefana, e varie milizie operanti in Cirenaica come la Guardia delle Infrastrutture Petrolifere, la milizia di Ezzedin Wakwak, le Forze di Difesa della Cirenaica e il più famoso Esercito della Cirenaica, legato alla casa reale dei Senussi. Le milizie legate a Tobruk controllano un’importante parte di territorio libico ad est, comprendente anche importanti siti petroliferi.
La forza più importante di cui dispone il parlamento di Tripoli è il Fronte Alba della Libia, che include Fratelli Musulmani e salafiti. I miliziani legati al parlamento di Tripoli, che continua ad opporsi all’eventualità di un intervento occidentale, sono stimabili in circa 100 mila unità, divisi tra le tribù berbere della Tripolitania, il network legato a Abdelhakim Belhaj, uno dei leader della rivolta anti-Gheddafi, più o meno legato ad Al Qaeda, il Comitato Supremo di Sicurezza, a cui fanno capo oltre 70 gruppi di miliziani attivi nei dintorni di Tripoli, e la milizia di Misurata, dai 30 ai 40mila combattenti, vicina al governo islamico, ma di fatto legata ad una propria agenda indipendente. Il Qatar è accusato di fornire supporto ad alcuni di questi gruppi, che controllano la parte occidentale del Paese e nello specifico un’area compresa fra Tripoli, Ghat, Waddan e Misurata. Ma anche il controllo sul territorio del parlamento di Tripoli non è capillare, come dimostrato dal caso della liberazione dei tecnici italiani a Sabrata, città che di fatto, pur essendo sotto il controllo di Tripoli, può considerarsi un’entità indipendente.
Milizie Tuareg e Tobou
Tuareg libici e combattenti Toubou si contendono invece le aree sud-occidentali nel deserto del Fezzan. Ex combattenti e mercenari dell’esercito di Gheddafi, i primi, attivi al confine con l’Algeria, sono formalmente alleati di Tripoli, ma anche loro, di fatto, seguono un’agenda indipendente e legata soprattutto ai traffici di armi, droga ed esseri umani, gestiti nel deserto del Sahara assieme ai tuareg maliani. Alleati di Tobruk ed ex oppositori di Gheddafi, al contrario, i combattenti dell’etnia Toubou sono strategici per Tobruk nel controllo dell’area desertica a sud. Come i Tuareg, grazie alla conoscenza delle rotte sahariane, gestiscono il traffico di migranti diretto in Europa, scortandoli dall’Africa sub-sahariana alle città costiere della Libia.
Isis, Ansar al Sharia e Al Qaeda
Le milizie del Califfato in Libia, secondo le stime al ribasso, si aggirerebbero intorno alle 4mila unità, delle quali circa 1.200 sarebbero reclutatori, ideologi e responsabili, appartenenti al fulcro dell’organizzazione. L’espansione dell’Isis in Libia, sin dall’arrivo nell’autunno del 2014 a Derna e dal successivo rientro dei foreign fighters libici, reduci siriani e iracheni, del battaglione al-Battar, più che ad effettive conquiste militari, è dovuto alla capacità di cooptare gruppi e milizie tribali non rappresentati dai principali schieramenti, compreso il gruppo jihadista più influente in Libia, Ansar al Sharia. Ansar ak Sharia, infatti, che controlla una parte di Bengasi, dove rivendicò nel 2012 l’attacco al consolato americano in cui perse la vita l’ambasciatore Christopher Stevens, sta subendo una vera e propria emorragia di combattenti in favore delle milizie del Califfato. I jihadisti dell’Isis, su un territorio di circa 250 km di costa, controllano quattro centri: Sirte, il più importante, Nawfaliyah, Harawa e Ben Jawad, che si affaccia sulla cosiddetta “mezzaluna petrolifera”, obiettivo privilegiato dei jihadisti che, come in Siria ed in Iraq, trovano nel contrabbando di petrolio e terre rare una importante fonte di finanziamento. A supporto degli uomini del Califfato, nel caso di un eventuale intervento occidentale, inoltre, non è escluso l’arrivo dei miliziani di Al Qaeda nel Maghreb Islamico, operanti nel Sahel, e di quelli di Boko Haram, attivi in Nigeria.
Uno dei rischi principali legato ad un eventuale intervento occidentale, secondo la maggior parte degli analisti, sarebbe infatti proprio una convergenza dei gruppi legati all’Islam radicale sotto la guida dell’Isis. Non solo al Qaeda e Boko Haram, ma anche tutte le milizie islamiche, per tradizione ostili alle ingerenze occidentali in Libia, rischierebbero di aderire, spinte dalla propaganda anti-occidentale, ad un ampio fronte che potrebbe essere guidato proprio dai jihadisti del Califfato.
Un intervento, quello occidentale, che, lungi ancora dal trovare un suo partner affidabile sul terreno, ieri, al contrario, ha incontrato un nuovo ostacolo pure nelle forze islamiche ostili all’Isis, come quelle legate al parlamento di Tripoli, che ha fatto sapere che, in Libia, “non accetterà mai alcun intervento militare straniero”.