Demografia, la migliore amica o la peggior nemica di Stati, imperi e blocchi. Se sfavorevole, il crepuscolo è dietro l’angolo. Se favorevole, non si intravede la fine dell’alba. Ché il numero è forza – forza lavoro, forza militare – e può rivelarsi, nei momenti critici, il segreto della sopravvivenza di una nazione.

Le epoche appartengono ai popoli fertili, di figli e di idee, e in Occidente è tanto recessione demografica quanto desertificazione intellettuale. Le agende di ritorno alla natalità hanno sostanzialmente prodotto risultati più negativi che misti, salvo la curiosa eccezione di Israele – dove la crisi delle culle non ha mai avuto luogo –, e i Paesi occidentali, uno dopo l’altro, iniziano a sentire il peso della sfida demografica.

Ma non è soltanto l’inverno demografico ad affliggere l’orizzonte dell’Occidente, perché esiste un’altra sfida legata alle culle, riguardante l’asse Stati Uniti-Europa-Oceania, che potrebbe rivelarsi financo più perniciosa. È la sfida della transizione etnica, che fra il 2050 e il 2100 renderà irriconoscibile il volto (e l’anima) di quasi tutti i Paesi occidentali. Transizione che, se non affrontata adeguatamente oggi, un domani sarà produttrice di fenomeni di terzomondizzazione ed una possibile arma ibrida nelle mani dei rivali d’Occidente.

Verso un Occidente post-occidentale

La civiltà occidentale è stata storicamente associata alla tradizione liberaldemocratica, alla legge e ai diritti umani, mentre la sua cultura è ritenuta il frutto della combinazione di giudeo-cristianesimo, greco-romanità e Illuminismo, ma sarebbe intellettualmente disonesto negare o minimizzare l’importanza del fattore etnico. Giacché l’Occidente, e le guerre culturali che lo attraversano ne sono la dimostrazione, è stato ed è percepito tutt’ora, dai suoi abitanti e dal resto del mondo, come il polo civilizzazionale dei cosiddetti “popoli bianchi“. Connubio innegabile, ma destinato a essere sepolto dalla storia.

Tra il 2050 e il 2100, se l’Occidente-civiltà esisterà ancora, e ciò dipenderà anche dall’evolvere della competizione tra grandi potenze, avrà perduto definitivamente ogni connotazione identitaria legata al possesso di quelle specificità che l’hanno reso tale. Perché l’Occidente del futuro, proiezioni demografiche alla mano, sarà post-occidentale. Ovvero post-bianco.

Nei Paesi centrali e periferici dell’Unione europea, negli Stati Uniti e in parte dello spazio anglofono, dal Regno Unito all’Oceania bianca, hanno avuto inizio dei processi di transizione etnica (e religiosa) a bassa reversibilità e a gestionalità variabile che raggiungeranno l’apogeo nei prossimi decenni, sicuramente tra il 2050 e il 2100, risentendo dell’influenza di fattori come natalità e invecchiamento dei popoli autoctoni, ondate migratorie, guerre e cambiamento climatico.

Verso un’Europa post-europea

L’Europa sta affrontando due fenomeni demografici contrapposti: recessione e crescita. Recessione dei popoli autoctoni, le cui famiglie si restringono e la cui età media aumenta, e crescita degli abitanti di origine extraeuropea, tendenzialmente più giovani e propensi ad una natalità positiva.

Le proiezioni demografiche indicano che l’Europa del futuro, a meno di radicali inversioni di tendenza – di cui ad oggi, però, non si intravedono i prodromi –, sarà divisa secondo nuove linee etnodemografiche, in parte coincidenti con nuove religiosità.

La penisola iberica sta sperimentando dei fenomeni di afrolatinoamericanizzazione che, entro il 2050, potrebbero rendere la popolazione spagnola per un terzo di origine straniera. Processi di romizzazione dovrebbero trasformare i popoli nomadi nel primo gruppo etnico in Bulgaria, Romania e Ungheria fra il 2050 e il 2070, sullo sfondo di transizioni su scala ridotta in Bosnia, Repubblica Ceca e Serbia, e sono alla base dell’ascesa delle estreme destre, dell’espansione di stati paralleli e della diffusione di guerriglie urbane, proteste di piazza e rivolte etnocentriche.

In Francia, dove nel 2015 si stimava che gli abitanti di origini arabe e subsahariane fossero il 19% della popolazione totale, i dipartimenti in cui si registrano più neonati di (probabile) appartenenza islamica che di altri background sono una realtà dalla fine degli anni Dieci e si stima che, al ritmo attuale, il sorpasso sugli autoctoni possa avvenire attorno al 2060. In Svezia, similmente, gli autoctoni dovrebbero diventare il 49% della popolazione verso il 2065. E saranno investiti da profondi mutamenti etnodemografici di analoga natura, ovvero arabo-africanizzazione e/o turchizzazione, anche Belgio, Germania, Italia e Paesi Bassi.

La fine dell’anglosfera bianca

In Australia e Nuova Zelanda, i tradizionali avamposti dell’Occidente alle estremità dell’Asia pacifica, il declino demografico dei bianchi è iniziato negli anni Sessanta e non è stato rallentato neanche dall’immigrazione dall’Europa. In Nuova Zelanda, dove due terzi dei neonati sono asiatici e aborigeni dall’inizio del Duemila, i bianchi potrebbero diventare il 64% della popolazione entro il 2043 – giù dall’89,5% del 1971. In Australia, dove i bianchi erano il 57,2% nel 2021, la velocità del processo di “asiatizzazione” ha spinto alcuni strateghi a suggerire ai decisori di prendere atto dell’avvenuta trasformazione dell’Australia in una “nazione eurasiatica” e di agire di conseguenza, ovvero formulando delle politiche estere più “sensibili alle questioni asiatiche”.

L’era della maggioranza bianca è destinata al tramonto anche nei cuori dell’anglosfera, cioè Stati Uniti e Regno Unito, dove le proiezioni indicano la discesa dei cosiddetti Wasp al di sotto del 50% della popolazione totale verso la metà del secolo. In Irlanda, altra terra dell’anglosfera, si è stimato che la piena multietnicità possa arrivare entro il 2050.

Gli Stati Uniti hanno iniziato a registrare più neonati di minoranze etniche che di background bianco-europeo a partire dal 2011, nel 2016 calcolavano più morti che nuovi nati tra i bianchi in 26 stati e nel 2018 presentavano sei stati a maggioranza non bianca e quattordici stati con una maggioranza di under-11 non bianchi. Qui, la potenza-guida dell’Occidente, il raggiungimento del capolinea da parte dei WASP, in via di autoestinzione fra denatalità e depressione – sono l’80% di tutte le overdosi letali da oppioidi e il 69% di tutti i suicidi –, è previsto fra il 2040 e il 2050.

Il Regno Unito, dove la trasformazione dei bianchi in una minoranza sul totale della popolazione è prevista fra il 2051 e il 2066, sembra essere l’unica realtà dell’anglosfera ad aver riconosciuto l’epocalità e l’irreversibilità della deoccidentalizzazione. Consapevolezza emblematizzata dalla formulazione di una visione nazionale postoccidentale, la Global Britain, esemplificata dalla de-inglesizzazione dei vocabolari e, non meno importante, dalla proiezione di politici di origine commonwealthiana ai vertici della piramide del potere.

Deoccidentalizzazione, ossia scristianizzazione

L’Occidente di domani, oltre che post-bianco, sarà anche post-cristiano. Una tendenza, quella dell’avviamento verso il pluralismo religioso al massimo grado, fotografata da censimenti e sondaggi, palesata dalla diffusione di feroci guerre culturali e rafforzata dall’evoluzione di calendari festivi, vocabolari, usanze e rituali.

La post-cristianità è realtà visibile e tangibile in un numero crescente di paesi occidentali, che, nella stragrande maggioranza dei casi, affrontano una mutazione religiosa di natura duale: ateizzazione degli autoctoni, tribalizzazione degli allogeni. L’ideale, data l’alta carica conflittuale di cui la transizione etno-religiosa è portatrice, sarebbe la formulazione di modelli incoraggianti l’ibridazione culturale.



La scristianizzazione è tendenza comune all’intero Occidente, nel quale le confessioni cristiane hanno cessato di essere le stelle polari spirituali della maggioranza, ovvero la fede di almeno il 50% degli abitanti, in Australia, Belgio, Francia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Regno Unito e Repubblica Ceca. Eccetto che per la Polonia, curioso caso di resistenza (parziale) alla secolarizzazione, l’intero blocco occidentale sarà in piena fase post-cristiana entro la metà del secolo – anche l’Italia.

La scristianizzazione sta trasfigurando il panorama urbano delle città occidentali – nel solo Québec è scomparso il 25% di tutte le chiese nei primi vent’anni del Duemila –, sta venendo accompagnata dall’aumento dei crimini d’odio cristofobici – in Francia sono decuplicati dal 2008 al 2019 – e sta producendo delle profonde alterazioni a livello valoriale – si pensi alla preponderanza di opinioni e convinzioni liberal-progressiste tra la generazione Z.

Ma un Occidente post-cristiano non sarà necessariamente un semenzaio di agnosticismo, irreligiosità e liberal-progressismo. Confessioni di provenienza extraoccidentale – come l’Islam, il principale concorrente della cristianità in ogni paese occidentale –, nuovi movimenti religiosi, spiritualità alternative e riedizioni contemporanee di antichi culti, come il satanismo – cresciuto del 167% nel Regno Unito fra il 2011 e il 2021 –, colmeranno il vuoto lasciato dalla cristianità e incanaleranno i loro valori nelle società, nell’economia e in politica. L’Occidente del futuro sarà un supermercato di fedi.

Definire e ridefinire l’Occidente

Il superamento definitivo del bianco e del cristocentrismo in Occidente porrà fine ad un ordine plurisecolare, imponendo e determinando la nascita di una nuova e distinta civiltà: meno europea e più eurafrasiatica, meno cristiana e più abramitica, meno particolaristica e più cosmopolita. Una “poli-civiltà“.

L’Occidente di domani potrebbe essere un blocco policivilizzazionale, dotato di una complessa eterogeneità, così come potrebbe cedere, causa l’onda d’urto generata dalla perdita del collante etnoreligioso, e andare incontro ad una frammentazione. Una serie di post-Occidenti in luogo di un post-Occidente.

La deoccidentalizzazione dell’Occidente sarà burrascosa e inarrestabile. Sarà accompagnata da inevitabili processi di polarizzazione e radicalizzazione, ondate di populismo di destra e tensioni interetniche. E i segnali di ciò che attende l’Occidente all’orizzonte, qualora le classi dirigenti non si rivelassero all’altezza della sfida, sono già presenti: aggravamento del nervosismo interetnico, esplosione di guerre civili molecolari, proliferazione di zone grigie e stati paralleli, scenari di banlieueficazione e molenbeekizzazione.

Le interferenze delle potenze terze negli affari interni dei paesi occidentali aumenteranno di pari passo con l’avanzamento della loro deoccidentalizzazione. Non è fantapolitica: la Russia gioca sulle divisioni interetniche degli Stati Uniti sin dagli anni Trenta, Turchia e Arabia Saudita competono per l’egemonizzazione dei musulmani d’Occidente dagli anni Novanta, chi ha i mezzi utilizza le proprie diaspore per raccogliere intelligence ed esercitare pressioni politiche, mafie e terrorismi sguazzano nei ghetti etnici. Un’era di guerre ibride combattute dai rivali d’Occidente sfruttando il fiele delle minoranze in ascesa e cavalcando paure e frustrazioni delle maggioranze in declino è alle porte – ed in parte è già qui.

Prendere atto della deoccidentalizzazione dell’Occidente è e sarà l’unico modo di ridurre, perché eliminare è e sarà impossibile, i rischi della militarizzazione della questione da parte di attori rivali. Il post-Occidente potrà evitare un’involuzione all’Italia millecinquecentesca soltanto sviluppando dei modelli d’integrazione che considerino gli errori di assimilazionismo e multiculturalismo. La sfida sarà stata trasformata in opportunità quando le potenze si concepiranno come pluricontinentali e quando le diaspore verranno convertite in ponti verso nuove realtà. “Sono gli ultimi giorni del Mondo bianco”, scriveva il The Guardian nel vicino eppure lontano 2000, e ancora nessuno ha il coraggio né la fantasia di immaginare come potrebbe essere.

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