L’Impero è tornato. Perlomeno nelle intenzioni, la Global Britain, pensata da Boris Johnson e dai fautori della Brexit membri del Partito Conservatore, si pensava erede della tradizione internazionale di grande potenza del Regno Unito. Ma alla prova dei fatti negli ultimi mesi non è stata solo la retorica di Londra a farsi artefice di una proiezione di tale portata. Nella sostanza, la stessa capacità d’azione di Londra è stata influenzata da una “grand strategy” che, pur incardinata nelle linee atlantiche dettate in primo luogo dagli Stati Uniti, ha preso molto dal passato imperiale del Paese.
Lo testimoniano le mosse condotte da Johnson in occasione delle prime settimane della guerra russo-ucraina, il sostegno totale all’obiettivo della vittoria militare di Kiev, l’invio massiccio di armi, la retorica infiammata in opposizione a Vladimir Putin e le mosse per arruolare al suo fianco i Paesi dell’Est Europa. In ultima istanza, Londra è riuscita a convincere anche la superpotenza a stelle e strisce sull’opportunità di modificare in senso più interventista la linea, di accelerare le forniture a Kiev, di applicare un divide et impera in Europa volto a accelerare l’allineamento del Vecchio Continente in senso atlantista e di rompere gli indugi. Un risultato che mostra la capacità di rafforzamento della “relazione speciale” dopo gli screzi del disastro afghano. Ma è anche una testimonianza della forza sistemica del “riflesso imperiale” di Johnson.
La lezione del “Grande Gioco”
La ritirata da Kabul ha portato Londra, assieme a Washington, a uscire sconfitta e disordinatamente da una delle regioni teatro del “Grande Gioco” ottocentesco con cui l’Impero britannico e quello russo si contesero il controllo dell’Asia profonda. Ebbene, proprio in direzione del contrasto alla volontà russa di rafforzarsi a scapito dell’Occidente in Eurasia va la decisione, ferma e convinta, di sostenere l’Ucraina.
Londra teme la Russia perché, più degli Stati Uniti, teme l’integrazione economica euroasiatica. Preoccupata dalla “GeRussia”, ma anche dalla ricerca di un accordo omnicomprensivo tra Unione europea e Mosca capace di passare sopra la Nato. Da qui i tentativi di Johnson di remare in direzione contraria alle manovre distensive di Emmanuel Macron prima del 24 febbraio scorso. Ma anche la reazione convinta dopo che coscientemente Putin, attaccando l’Ucraina, ha scelto di rottamare un disegno strategico poco gradito a Londra.
Il triangolo è chiaro: c’è la sconfitta da vendicare, quella con i Talebani a Kabul; c’è la guerra per procura da vincere in Ucraina; c’è, infine, lo scenario di domani, l’Asia profonda dell’Indo-Pacifico. In questa regione, negli ultimi mesi, Londra ha rotto gli indugi e individua ora nella Repubblica Popolare Cinese una minaccia strategica a tutto campo.
Riscattare Kabul e difendere Kiev, nell’ottica di Londra, significa anche preservare Taiwan: lettura forse semplicistica ma che segnala la forza del riflesso imperiale. La Russia è il bersaglio politico da colpire per consolidare il contenimento dell’Heartland dell’Eurasia ad opera della cintura di Paesi che lo circondano. La nazione da ridimensionare per, in prospettiva, fermare Pechino.
La Global Britain nasce russofoba
La russofobia atavica del Regno Unito rinasce per precise ragioni geostrategiche, legate tanto al fronte geopolitico quanto a quello interno. Sul primo campo, la Global Britain necessitava di un fattore amalgamante: per rompere la dittatura dell’economicismo, la forza della City come piazza globale e gli interessi di bottega degni del miglior spirito mercantile britannico non fungono da fattore amalgamante. La capacità del Regno Unito di indicare un rivale strategico, la Russia, di identificare interessi precisi nel suo contenimento e di inserire il tutto in una grande strategia nel “Grande Gioco” del nostro tempo (la Guerra Fredda 2.0 di cui abbiamo sovente parlato), è tutt’altra questione. Permette di dare anche una ratio compiuta ai grandi piani del Paese: l’espansione delle forze armate e dell’intelligence, quest’ultima tra le maggiormente operative nel controllo della Russia, le alleanze militari e per la produzione di armamenti, come il piano Tempest esteso all’Italia, il ritorno a Est di Suez della Royal Navy.
La doxa antirussa consente anche obiettivi pragmatici sul fronte interno. Sul fronte dell’unione del Paese, ha scritto Lorenzo Vita su queste colonne, un Regno “diviso da profonde fratture risorte con la Brexit” può trovare “nelle velleità geopolitiche una valvola di sfogo per evitare di dover riflettere sul proprio inquietante presente” di precarietà post-Brexit, dato che “non tutti i nodi di quell’uscita dall’Europa sono ancora venuti al pettine”. E in un certo senso la potenza geopolitica che Johnson mira a ricostruire è quella degli inglesi, prima ancora che dei britannici in toto. Si ricostruisce dunque il percorso che vede la Brexit come ultima epopea imperiale del popolo inglese, partita riaffermando la volontà di uscita dall’Ue del ceppo dominante del Paese sulla volontà europeista nazioni celtiche (irlandesi e scozzesi) e proseguita con sdoganamento della Global Britain. Inoltre il premier britannico vuole rompere la dipendenza dal gas russo, che impatta per circa il 15% del mix energetico di Londra, rilanciando le attività del settore nucleare nel Regno Unito e costruendo, come nota il Financial Times, sei nuove stazioni pronte a entrare in attività tra il 2030 e il 2050, per azzerare i legami energetici con la Russia. Rilanciando al contempo la strategia di estrazione nazionale nei giacimenti del Mare del Nord.
Il nodo India
Per essere globali, bisogna avere alleati e partner su scala mondiale. Logico dunque che gli sforzi di Johnson si siano concentrati, nelle prime settimane del 2022, sull’India. Già in passato “perla” dell’Impero britannico, la nazione del subcontinente è oggi vista come un alleato sistemico con cui parlare da pari a pari. A tal punto che nella sua visita ad aprile, prima dei colloqui con Narendra Modi, Johnson ha voluto visitare Ahmedabad, capitale del Gujarat, con un omaggio al luogo dal quale Gandhi lanciò la marcia del sale, tappa fondamentale nella battaglia del Mahatma per l’indipendenza del suo Paese da Londra.

L’asse con l’India renderà grande la Global Britain, se consolidato, più di altre partnership come quella con l’Australia, già nella chiave di volta delle alleanze securitarie con Washington assieme al patto Aukus. Questo perché l’India sta giocando sagacemente da attore autonomo, portando avanti una sua agenda comune: far sponda con Nuova Delhi significa per Londra aprire all’obiettivo lontano del ridimensionamento della Cina. Significa lanciare strategie per una partnership securitaria e sistemica in grado di mettere un nuovo perno nella sfera d’influenza russa sostituendosi a Mosca nel rapporto di forniture militari al Paese e, in prospettiva, aprire la City di Londra alla rampante crescita indiana.
Il Regno Unito potrà tornare compiutamente a Est di Suez solo sulla base di un accordo con l’India, indipendente da ogni alleanza ombelicale con Washington, che consenta a Londra di potersi muovere sia nel quadro degli assetti prestabiliti da Aukus e dalle alleanze guidate dagli Stati Uniti sia portando una voce propria. Un preludio al lavoro per una “Nato mondiale” anticinese da costruire in campo securitario anche attraverso l’attenzione al Giappone sempre più vicino a Londra? Può essere una chiave di lettura importante, specie dato il potenziale che Londra dà agli accordi securitari di ogni tipo.
Il richiamo valoriale
Dunque, Londra pensa in grande. E la fase attuale di conflitto segnala che il Regno Unito intende dare una valorizzazione piena alla sua visione di ampio respiro per la costruzione della Global Britain. A cui la narrazione valoriale aggiunge un’ulteriore strutturazione.
Ne sono un esempio i riferimenti quotidianamente promossi da Johnson a Winston Churchill nel programmare la risposta strategica a Putin. Ultima manifestazione più evidente è quella del discorso alla Rada ucraina compiuto su invito di Volodymyr Zelensky. Johnson e il Regno Unito da ben prima della guerra hanno promosso e espanso con forza ancora maggiore rispetto agli Stati Uniti la narrazione del confronto tra libertà e autocrazia su scala globale. La guerra in Ucraina offre sponda per alimentarla, con il paragone tra Putin e Hitler che nelle intenzioni del primo ministro prefigura chiaramente quello tra la sua immagine e quella del vincitore della seconda guerra mondiale.
La Global Britain, in quest’ottica, potrà strutturarsi con maggior facilità in un mondo sempre più polarizzato. Un mondo in cui le dicotomie geopolitiche, ideali e, perché no, economico-finanziarie saranno sempre più tracciate. E non è un caso che dal decoupling con la Cina al contrasto alla Russia Johnson faccia di tutto perché questo mondo si strutturi. Significa giocare col fuoco, senz’altro, ma anche perseguire un’agenda strategica chiara. Avente, ora come in passato, l’allineamento dell’Europa terrestre alla potenza marittima anglosassone nel contrasto al nemico esterno e la conseguente preclusione all’ascesa di un egemone continentale come obiettivo. Il paradosso, che per Londra risulta difficile da rompere, è che questo può accadere solo in un contesto di accordo con gli Stati Uniti indicando nei rivali di Washington anche gli obiettivi di Londra. Churchill, del resto, in nome della vittoria sulla Germania nazista e l’Asse scelse consapevolmente di smantellare l’Impero britannico con la Carta Atlantica firmata assieme a Franklin Delano Roosevelt. Johnson non può cambiare dinamiche strutturali ormai consolidate da un’ottantina d’anni. Né qualsiasi tipo di Global Britain potrà sorgere diversamente.