Lo scoppio della guerra in Ucraina, le nuove tensioni internazionali tra la Russia e il blocco occidentale e il contraccolpo economico figlio della pandemia di Covid-19: queste sono soltanto alcune delle recenti variabili impazzite che hanno spinto le grandi potenze globali a ricalibrare i propri obiettivi e le rispettive strategie. La Cina non fa certo eccezione.

Pechino, ad esempio, aveva lanciato nel 2013 la Belt and Road Initiative per avvicinarsi all’Africa e al cuore dell’Europa. Ebbene, l’avvento del Covid-19, tra lockdown e taglio delle spese, ha costretto il governo cinese a congelare nella migliore delle ipotesi, se non ad annullare numerosi progetti relativi alla Nuova Via della Seta.

Allo stesso tempo, l’ambizione del Dragone di incrementare il suo peso specifico in aree di azione strategiche e in mercati chiave (leggi: Occidente) si è notevolmente ridimensionata. La sensazione è che il governo cinese abbia pragmaticamente ridotto la circonferenza del proprio raggio d’azione, preferendo concentrarsi sui nodi spinosi situati in Asia. Dal punto di vista socio-economico, infine, il comportamento restio della popolazione pone Xi Jinping di fronte a sfide senza precedenti. Il leader del Partito Comunista Cinese deve infatti rafforzare la rete di sicurezza sociale in risposta ai grandi risparmi familiari accumulati da cittadini sempre più ansiosi.

Detto altrimenti, è necessario stimolare 1,4 miliardi di cinesi ad aumentare i consumi, così da stabilizzare il vacillante mercato immobiliare e far ripartire a pieno ritmo il motore economico del Paese. La Cina ha insomma iniziato a cambiare pelle per evitare di essere travolta dagli eventi politici, economici e sociali che minacciano il suo futuro.

Il “Momento Bismarck” di Pechino

Nel valutare l’economia cinese il Fondo Monetario Internazionale (FMI) ha raccomandato Pechino di effettuare alcune riforme, in primis il rafforzamento della rete di sicurezza sociale per far circolare gli ingenti risparmi accumulati dalle famiglie.

Asia Times ha parlato di “Momento Bismarck” per la Cina, riferendosi alla necessità, per il Dragone, di rifarsi al modello di sicurezza sociale sostenuto da cancelliere tedesco Otto von Bismarck nel XIX secolo. In caso contrario, ha spiegato Thomas Helbling, economista dell’FMI, la Repubblica Popolare Cinese non sarebbe in grado di stimolare la popolazione ad incrementare i consumi. Ma a quanto ammonterebbe lo stimolo economico per far ripartire il motore di Pechino? Si parla di qualcosa come 2,6 trilioni di dollari anche se, considerando le dimensioni dell’economia sommersa, la cifra potrebbe anche essere maggiore del pil annuale della Francia e toccare i 2,8 trilioni di dollari.

Per gli analisti Xi deve fare in modo di aumentare il ruolo dei consumi delle famiglie nella domanda interna. Il presidente cinese sembra essere molto attivo su questo fronte. Ci sono infatti segnali a dimostrazione di come il suo team, probabilmente guidato dal nuovo premier Li Qiang, inizierà le operazioni a marzo. L’obiettivo: creare un’ambiziosa rete di sicurezza sociale e un sistema sanitario bismarckiani per indurre le masse cinesi ad abbandonare il risparmio.

In particolare, per Pechino sono fondamentali riforme come l’innalzamento graduale dell’età pensionabile per aumentare l’offerta di lavoro, il rafforzamento dei sussidi di disoccupazione e dell’assicurazione sanitaria e la riforma delle imprese statali per ridurre il divario di produttività con le imprese private.

Guardarsi dentro (e nei dintorni)

La chiave che la Cina deve impugnare per far ripartire la propria locomotiva, sostiene Laurence Kotlikoff, economista della Boston University, consiste nel creare una moderna rete di sicurezza sociale. Anche perché, come ha spiegato Carlos Casanova, economista di Union Bancaire Prive, il risparmio interno lordo cinese in percentuale del pil è tra i più alti al mondo; ha toccato il 45,7% nel 2021, una cifra enorme rispetto al 17,4% fatto segnare dagli Stati Uniti. 

Se Xi saprà ripercorrere i passi di Bismarck potrà molto probabilmente godere degli stessi frutti della Germania, visto che Berlino gestisce ancora oggi il proprio sistema sanitario e assistenziale nel modo in cui era stato progettato negli anni Ottanta dell’Ottocento. 

Il governo cinese si prepara quindi ad accelerare gli sforzi per costruire una rete di sicurezza sociale vivace e ampia, per migliorare l’accesso all’assistenza sanitaria, ai sussidi di disoccupazione e all’accesso a pensioni competitive a livello globale, e, infine, per escogitare un modo affidabile per pianificare le pensioni. 

Di pari passo, dal punto di vista militare e strategico è interessante notare come la Cina abbia iniziato a concentrare l’attenzione nel proprio “cortile di casa” in una sorta di Dottrina Monroe in salsa cinese. In quest’ottica, prima vengono gli affari asiatici, e cioè quelli più vicini ai confini cinesi, poi tutto il resto. Oltre alla questione taiwanese, Pechino ha in agenda le rivendicazioni marittime nel Mar Cinese Meridionale, gli screzi al confine con l’India, l’ombra della presenza statunitense in Corea del Sud e Giappone e la progressiva espansione in Asia centrale (a discapito del partner russo).

La “nuova” BRI

Forse non è neppure corretto parlare di nuova Belt and Road. Molto più semplicemente, il progetto iniziale di far confluire miliardi e miliardi di dollari in mercati già sviluppati, come lo sono quelli europei (e per di più senza alcuna certezza di riuscita), è cambiato. Adesso la Cina, complici le nuove tensioni con il blocco occidentale, ha messo nel mirino i Paesi in via di sviluppo, il cosiddetto sud del mondo.

Pechino ha dato via ad una sorta di cooperazione sud-sud, riprendendo in mano alcuni progetti africani ma anche puntando a testa bassa sull’America Latina. Come ha sottolineato Foreign Policy, il prestito di infrastrutture all’estero della Cina è ora una frazione di quello che era cinque anni fa, spinto al ribasso dai problemi economici interni del paese, dalla drastica (e ampiamente sottovalutata) riorganizzazione da parte di Pechino nel 2016-2017 delle sue normative per gli investimenti all’estero e da una serie di fallimenti della BRI in Paesi che vanno dall’Ecuador allo Sri Lanka. 

Attenzione però, perché Pechino non si arrende sulla Belt and Road: tutt’altro. Al posto della vecchia Via della Seta c’è un modello di impegno meno appariscente e meno costoso, basato sulla coltivazione di legami in modo più organico in campi come il commercio, le telecomunicazioni, l’energia verde e il mondo accademico, ma altrettanto efficace per costruire un solido partenariato tra la Cina e il sud del mondo.

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