Mario Draghi inaugura con il suo viaggio in Libia la sua “diplomazia” personale compiendo il primo viaggio all’estero dall’insediamento a Palazzo Chigi e trovandosi di fronte al suo primo importante impegno operativo di politica internazionale al di fuori degli scenari del continente europeo.

Il presidente del Consiglio ha più volte ribadito di indicare nell’atlantismo la sua cornice strategica di riferimento, e questo orientamento è stato trasmesso al governo sia dalla scelta di alcuni ministri chiave (Lorenzo Guerini alla Difesa, Giancarlo Giorgetti al ministero dello Sviluppo economico, la nuova versione di Luigi Di Maio agli Esteri) sia da politiche operative poste in essere dal governo Draghi: pensiamo alla linea dichiaratamente più filo-atlantica del nuovo comparto tecnologico del Recovery Plan italiano o al caso Walter Biot, definito da L’Indro come il whatever it takes atlantico dell’ex governatore della Bce. 

Ma ogni proposito legato a posizionamenti internazionali, scelte di campo e preferenze politiche è fine a se stesso se non corroborato da iniziative politiche concrete. Il Di Maio “atlantista” appare desolantemente simile al Di Maio dei governi precedenti, portando a casa risultati politici inversamente proporzionali nella loro salienza alla lunghezza dei suoi viaggi. L’Italia necessita di muoversi in maniera autonoma negli scenari di riferimento, di ricostruire una proiezione politico-economica e strategica nel suo estero vicino, di mettere in campo una sua linea organizzativa prima ancora di mostrare fedeltà a quella altrui. In quest’ottica la scelta della Libia appare fondamentale.

Draghi in Libia con un’agenda ambiziosa

Draghi arriverà in Libia per esibire obiettivi politici corposi nel confronto con il governo di transizione di Abdul Hamid Dbeibeh. Come ricorda La Stampa, il premier vuole in particolar dare rilevanza non solo segnaletica all’importante rilancio dei piani bilaterali di investimento e sviluppo che riporteranno con forza l’Italia in Libia, amplificando un radicamento che negli ultimi anni è stato coraggiosamente vegliato e coordinato in particolare dalle majors dell’energia come Eni: “La Libia è anche affamata di elettricità e per evitare i continui blackout collettivi sarà centrale l’apporto dell’Enel, e l’implementazione delle energie rinnovabili. La partnership tra Italia e Libia sarà simboleggiata dalla riattivazione dei collegamenti Roma-Tripoli (con relativa ricostruzione dell’aeroporto di Mitiga) e dal completamento dei 1700 Km dell’Autostrada della pace, promessa da Berlusconi a Gheddafi nel 2008” nel quadro del massimo coinvolgimento italiano nell’ex Quarta Sponda. E non è da sottovalutare nell’ottica del riavvicinamento italo-libico il progetto di ristrutturazione dell’architettura italiana a Tripoli, deturpata o trascurata dalla dittatura del colonnello Gheddafi, un’operazione che rafforza il soft power di Roma in una regione in cui troppo spesso il Paese ha rinunciato a giocare con le armi della politica internazionale.

Affari e soft power dovranno unirsi necessariamente a una visione geostrategica per il definitivo processo di pacificazione del tormentato Paese africano. Ma la salienza della Libia per Draghi sta proprio nella sua natura di archetipo del complesso di limiti che la sua Italia dovrà superare in politica estera: assenza di visione, incapacità di coniugare “hard power” e “soft power”, noncuranza per il fondamentale estero vicino, scarsa attenzione alla proiezione strategica. La visita libica del premier vuole mettere un primo tassello in questa direzione e aprire a una maggiore presenza di Roma in uno scenario guardato da vicino da due Paesi che l’Italia ha individuato come cruciali nella sua agenda di politica estera: la Francia, con cui Draghi intende delineare con precisione e senza ambiguità e sudditanze le prospettive di cooperazione (vaccini, lotta all’austerità, sovranità strategica e tecnologica europea) e le “regole di ingaggio” degli scenari di competizione, e la Turchia, al tempo stesso latente rivale strategico e irrinunciabile partner commerciale e diplomatico di Roma dal Caucaso al Corno d’Africa, recentemente toccato dal ministro Guerini in una breve ma significativa visita.

Prossima tappa: il Vaticano

“Estero vicino” e “profondità strategica” per Roma significa innanzitutto guardare al Mediterraneo allargato. Come potenziale gendarme euroatlantico del “Grande Mare”, Roma deve sviluppare una dottrina sistemica per pensare la geopolitica nello spazio d’azione in cui si concentrano i suoi interessi militari, economici, strategici, commerciali, energetici, da pensare come sistema. Una visione “ecumenica” per il cui sviluppo si può dire che l’Italia abbia un vero e proprio maestro nel consolidato apparato della diplomazia vaticana, con la quale Draghi intende rafforzare una sinergia già profondamente rodata negli ultimi decenni.

Non è affatto casuale che dopo la visita in Libia Draghi preveda un incontro con papa Francesco nella seconda metà di aprile: il premier è da tempo vicino al pontefice, che nel 2020 lo ha nominato membro dell’Accademia delle Scienze Sociali del Vaticano, e ha nella dottrina sociale cristiana un punto di riferimento fondamentale. Il Vaticano ha scommesso molto su Draghi nella fase della sua ascesa, e Bergoglio vede possibilità di cooperazione con il nuovo governo italiano su una prospettiva che dall’Europa arriva a scenari complessi come quelli africani, in cui alle diocesi locali sarebbe estremamente gradita la copertura offerta da un rafforzamento della presenza italiana e in cui la Chiesa si propone come interprete di un multilateralismo caro all’Italia e in questo momento funzionale soprattutto alla creazione di prospettive comune di contrasto alla pandemia di Covid-19 per i Paesi meno sviluppati.

Non c’è per l’Italia “estero vicino” più vicino del Vaticano stesso, superpotenza immateriale nel cuore di Roma, in sponda con il quale l’Italia può acquisire rilevanza geopolitica e diplomatica globale e ricordarsi, inoltre, delle direttrici più importanti su cui la sua politica estera si deve incamminare. Mai quanto oggi da individuarsi negli spazi del Mediterraneo allargato tornato crocevia di interessi, contrasti e rivalità. In cui con la forza del suo sistema l’Italia può e deve agire come fattore di equilibrio. A Draghi il compito di dimostrare che la minorità italiana è pronta ad esser archiviata e che la ricreazione è finita. Sarà una sfida molto più complessa di ogni sfiancante tavolo negoziale alla Banca centrale europea o di ogni diatriba con i “falchi” sul rigore e l’austerity: ma è una partita che vale la pena di essere giocata.