What Comes After the War on Terrorism? War on China? È questa la doppia domanda retorica che si è posto Thomas Friedman sul New York Times all’indomani del ritiro americano dall’Afghanistan. L’uscita di scena degli Stati Uniti dal palcoscenico afghano ha lasciato molti cittadini statunitensi a dir poco perplessi. Se non altro perché, dopo venti anni di tentato Nation-building andato in malora in quel di Kabul, è apparso evidente come tutti gli sforzi della Casa Bianca orientati verso questa missione – tanto quelli economici che quelli militari – hanno avuto lo stesso effetto di un buco nell’acqua.
Che cosa sarebbe successo se l’America non avesse mai messo piede in Afghanistan? Quali sarebbero stati i temi più scottanti che avrebbero caratterizzato la politica estera Usa? È difficile rispondere a simili domande, anche se è tuttavia possibile fare delle ipotesi. Nel caso in cui gli Stati Uniti non avessero intrapreso la guerra al terrorismo boots on the ground, è molto probabile che Washington avrebbe declinato gran parte dei suoi sforzi per arginare l’ascesa della Cina.
Nel periodo compreso tra il 1979 e il 2019, le relazioni tra Usa e Cina sono state caratterizzate da una costante integrazione economica. Ben presto, illudendosi di aver trovato una sorta di Eden, le multinazionali occidentali hanno iniziato a trasferirsi oltre la Muraglia, grazie anche alla progressiva apertura della Repubblica Popolare cinese, desiderosa di accogliere le aziende straniere all’interno delle Zone Economiche Speciali (Zes). Questa era ha da un lato permesso ai due Paesi di vivere in pace, ma dall’altra ha creato conseguenze socio-economiche non proprio trascurabili.
Un contesto complicato
I 40 anni sopra evocati hanno consentito alle aziende occidentali di penetrare nell’immenso mercato cinese, e da lì conquistare tutta l’Asia; allo stesso tempo, molti lavoratori manifatturieri statunitensi ed europei sono rimasti senza lavoro. Negli ultimi cinque anni, non solo a causa dell’elezione di Donald Trump, come lasciano erroneamente intendere alcuni studiosi, i rapporti tra Usa e Cina sono andati deteriorandosi.
Le politiche commerciali di Pechino, sempre più attore globale e sempre meno “assistente” di Washington, hanno spinto quest’ultima a battere i pugni sul tavolo. Detto in altre parole, questi due giganti sono passati “dal fare un sacco di affari sul tavolo e, occasionalmente, darsi calci a vicenda sotto il tavolo” a “fare molti meno affari sul tavolo e darsi calci l’un l’altro, molto più forti, sotto il tavolo”. Il rischio più grande? Farsi male a vicenda e rompere lo stesso tavolo.
Negli ultimi decenni, la Cina ha venduto all’Occidente quelle che Friedman chiama merci superficiali (“shallow goods“), e lo ha fatto in abbondanza e senza alcun problema. Dalle magliette alle scarpe, passando per i pannelli solari, Stati Uniti ed Europa hanno acquistato a buon mercato questi prodotti, vendendo, in cambio, beni profondi (“deep goods“), come ad esempio software e computer. Adesso Pechino non solo è in grado di costruire da sola i beni profondi, ma può anche permettersi di esportarli così da fare concorrenza al resto del mondo. “Quando la Cina ci ha venduto merce superficiale non ci importava se il suo governo era autoritario, libertario o vegetariano”, ha sottolineato ancora Friedman.
Dopo l’Afghanistan tocca alla Cina?
La crescente rivalità tra Stati Uniti e Cina è esplosa quando Washington era ancora immersa nella guerra al terrorismo. Adesso che però l’America è uscita di scena, non solo dall’Afghanistan, ma apparentemente da tutto il Medio Oriente, è quasi scontato che il governo americano inizi a dedicarsi alla “minaccia cinese“, come amano spesso ripetere i funzionari della Casa Bianca. Ma un approccio del genere potrebbe non essere il migliore per gli Stati Uniti, almeno considerando una serie di interrogativi.
Il più importante può così essere riassunto: ha senso, per il governo americano, dopo 20 sfiancanti anni di guerra al terrorismo, intraprendere una nuova crociata, questa volta contro un soggetto ben più potente, come lo è la Cina? Il rischio è che le relazioni sino-americane possano davvero incendiarsi, influenzando il funzionamento delle catene di approvvigionamento, gli scambi di studenti, gli acquisti cinesi dei titoli di Stato Usa e così via. Friedman, a questo proposito, si è interrogato su quale dovrebbe essere la priorità del suo Paese.
Considerando gli enormi deficit nelle infrastrutture, nell’istruzione, nei redditi dei cittadini e nell’equità razziale, il governo Biden dovrebbe davvero sostituire la guerra al terrorismo con la guerra alla Cina, oppure Washington dovrebbe fermarsi un attimo per migliorare il proprio settaggio interno, logorato da mille battaglie, molte delle quali non andate a buon fine? La risposta a questa domanda contribuirà a plasmare il mondo di domani. E coinvolgerà tutti noi.