In Italia il Trattato di Aquisgrana è stato accolto come un campanello d’allarme da coloro che sono consapevoli dell’amicizia e delle convergenze che contraddistinguono il rapporto tra Francia e Germania e che, in generale, temono un salto di livello nei rapporti tra Parigi e Berlino che li porti a intrattenere qualcosa più simile a una relazione che a un’amicizia.

Un anno fa nella prima metà di gennaio l’ex premier italiano Paolo Gentiloni e il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron avevano annunciato l’inizio dei tavoli di lavoro per definire il Trattato del Quirinale, che avrebbe dovuto sancire concretamente la cooperazione rafforzata fra Roma e Parigi “per coordinarsi in maniera sistematica” su questioni bilaterali come crescita e occupazione, politica migratoria, ambiente e formazione, arrivando fino a un altro argomento già abbastanza discusso: quello della difesa comune europea, che l’Eliseo vorrebbe gestire. 

La firma per la sua ufficializzazione sarebbe dovuta avvenire tra settembre e ottobre 2018, ma la fine del governo Gentiloni e l’arrivo dell’esecutivo giallo-verde ha messo in cantina il progetto di accordo tra Roma e Parigi. Come ha spiegato Jean Pierre Darnis, consigliere scientifico dello Iai e direttore del master sulle relazioni franco-italiane all’Università di Nizza: “Il Trattato del Quirinale avrebbe il grandissimo vantaggio di creare un vero obbligo per i due Paesi di parlarsi in modo continuo, di sviluppare convergenze su vari temi, pur partendo da posizioni diverse. E questo sarebbe estremamente utile per abbassare i toni, soprattutto in un momento come questo. Si passerebbe dalla retorica all’azione politica”

Nonostante queste parole possano suonare poco credibili a causa del ricordo di molti, forse troppi, sgambetti francesi al nostro paese (dalla Libia, a Tim fino al caso Fincantieri) le parole di Darnis rappresentano uno scenario realistico. Le antipatie reciproche dovrebbero far tenere gli occhi aperti, non le mani legate dietro la schiena. È indubbio che queste tipologie di Trattati nascondano molte insidie, ma è altrettanto vero che rappresentino occasioni per accedere a numerose possibilità e ampliare i margini di manovra, se ci fosse una classe politica compatta e pronta a individuare le mancanze dell’altro e a sfruttarle.

Uno degli ostacoli principali ha ragione di essere considerato tale: perché mentre Parigi e Berlino sono considerati bene o male attori di pari livello, i loro rapporti con Roma non sono considerati paritari e buona parte del Paese non accoglie favorevolmente quei punti del Trattato che parlano delle decisioni politiche da prendere di comune accordo. La paura di non avere voce in capitolo è maggiore. Il problema è che questa eventualità potrebbe concretizzarsi comunque e sempre di più se l’Italia continua a rimanere fuori da trattati di peso politico e storico indubbio. Le riunioni bilaterali a livello ministeriale inserite nel trattato possono rivelarsi come occasioni cruciali per avere voce in capitolo nel delineamento della politiche più rilevanti per il continente, sia dentro che fuori i confini europei.

L’Italia fa bene a guardare agli Stati Uniti come partner fondamentale nello scacchiere internazionale, ma non può certo accontentarsi di qualche pacca sulla spalla e pensare allo stesso tempo di lasciare che il convoglio franco-tedesco prenda la sua strada lasciando gli altri stati europei a piedi. La politica è compromesso e non tutti possono permettersi di sbattere i pugni sul tavolo se sono – anche se rispettati – di piccola statura, perché prima o poi ne subiranno le conseguenze. Ciò non vuol dire che l’alternativa sia stare zitti a testa bassa sempre seduti al proprio posto, ma avere l’intelligenza di capire che servono amici, vicini, con una statura importante, perché sarebbe ingenuo affidarsi sempre all’intervento di un “amico” che si trova dall’altra parte dell’Oceano.

Stati Uniti che allo stesso tempo sono particolarmente contenti di assistere allo sfaldamento del progetto europeo. L’idea del presidente americano Donald Trump è proprio quella di mettere fuori dai giochi l’Unione europea, così da poter meglio gestire le relazioni bilaterali con i diversi paesi europei, senza doversi confrontare con un’entità con un peso non trascurabile. Basti pensare al fronte comune creatosi nelle sedi dell’Ue per difendere l’accordo sul nucleare iraniano, con cui sicuramente Trump avrebbe preferito evitare di scontrarsi. Il progetto europeo così com’è può non piacere, ma c’è motivo di credere che se si concretizzasse l’eventualità di un suo completo sgretolamento saranno in molti a volersene approfittare, non sono Washington. Molto probabilmente con conseguenze tutt’altro che positive per molti Stati dell’Europa. Quale soluzione? Non esistono soluzioni, esiste il compromesso.