Gli anni Dieci del Duemila hanno rammentato all’oblioso pubblico occidentale, che nel dopo-guerra fredda è stato messo in letargo dal potere narcotico della fine della storia, quanto sia procellosa la forza della ricorrenza storica. Ricorrenza che può assumere una grande varietà di forme, come il riemergere di antiche rivalità, l’uscita dall’armadio degli scheletri, il disseppellimento di impolverate asce di guerra, la rinascita sotto mentite spoglie di secolari confronti egemonici, il proliferare di déjà-vu e déjà-vecu e l’apparente reincarnazione di condottieri del passato.
Perché la storia non è che questo: un profluvio invariabile e continuo di inimicizie, antagonismi ed alleanze che si rinnovellano all’infinito, ingabbiando l’Uomo in un inevitabile ed eterno ritorno al passato che, per dirla alla Nietzsche, può essere soltanto navigato, ma mai aggirato. Un profluvio che ha investito e plasmato il decennio appena trascorso, che i posteri ricorderanno come la culla di una lunga serie di remake geopolitici: dal ritorno della guerra fredda tra Stati Uniti e Russia alla riaccensione della corsa all’Africa, passando per la riesplosione delle guerre russo-turche e il graduale ridivenire della Cina la “terra di mezzo”, cioè il centro del mondo.
Nel lungo elenco dei remake geopolitici del 21esimo secolo va annoverato obbligatoriamente il cosiddetto Grande Gioco 2.0, ovverosia la riedizione contemporanea dell’ottocentesca competizione russo-britannica per l’egemonizzazione dell’Asia centrale. Le differenze, come negli altri casi, non sono di sostanza, quanto di forma. Perché cambiano gli attori e le sottotrame – lo scontro non è più a due –, ma il grundmotiv è il medesimo: lo stabilimento di un avamposto nel Turkestan, atrio del cuore della Terra e porta d’accesso al Rimland, nel quadro della guerra eterna per il dominio dell’Eurasia.
L’importanza del fattore Afghanistan
Kabul è tornata agli afghani, di nuovo, per l’ennesima volta in meno di duecento anni, rafforzando e ripopolarizzando il celebre mito della maledizione del cimitero degli imperi. Una maledizione che dalla metà dell’Ottocento ad oggi è stata la causa delle ritirate frenetiche e rovinose dei britannici (1842), dei sovietici (1989), dei fedeli di Mohammad Najibullah (1996) e, più recentemente, degli occidentali.
Non una fortezza inespugnabile, ma un boia temibile che nel corso della storia ha assassinato dei nemici tanto potenti quanto sprovveduti – perché accecati e traviati dal loro senso di superiorità –, l’Afghanistan era, è e sarà sempre il corridoio dell’Eurasia profonda. Corridoio che ai fini dell’egemonia regionale non può essere aggirato – perché perfettamente incuneato tra i mondi russo, turcico, iranico, indiano e cinese –, ma soltanto attraversato con la dovuta cautela.
La posta in palio
Passano gli anni, cambiano in parte i soggetti coinvolti, ma lo scenario e gli obiettivi sono sempre gli stessi. L’Unione Sovietica è evaporata come neve al sole, e al suo posto è emerso un Paese, la Russia, che ha la stessa ambizione della vecchia Urss ma che, per motivi geopolitici, non può rischiare di fare il passo più lungo della gamba. Il Regno Unito ha da tempo abbandonato l’Asia centrale, mentre Cina e Stati Uniti risultano essere i due attori principali al centro del nuovo Grande Gioco.
La posta in palio è altissima, anche se all’apparenza così non sembrerebbe. L’area chiave è delimitata dai confini dell’Afghanistan, nazione oramai controllata dai talebani in seguito al ritiro delle truppe americane. Questo piccolo Stato, confine, tra gli altri, con Cina, Pakistan e Iran, è infatti altamente strategico per la propria posizione sulle cartine geografiche. Controllare Kabul significa, nel migliore dei casi, avere una rotta commerciale grazie alla quale tagliare in due l’Asia e raggiungere l’Europa orientale.
Considerando che al momento la principale diatriba politica in campo internazionale si gioca tra Cina e Stati Uniti, non sorprende che la vicenda afghana sia in cima alle agende di entrambi i governi citati. Per quanto riguarda Pechino, Xi Jinping considera Kabul un possibile partner da inserire nella poderosa Belt and Road Initiative. Questo comporterebbe la costruzione di strade, ferrovie e altre infrastrutture all’interno del Paese, forse in cambio di particolari concessioni per lo sfruttamento delle stesse opere e delle ingenti risorse sotterranee. Calamitare il governo dei talebani consentirebbe poi al Dragone di ritagliarsi una strada molto più rapida e, soprattutto, evitar eventuali guai presso lo stretto di Malacca.
Dall’altra parte abbiamo un Afghanistan in ginocchio, allo stremo delle forze, e teoricamente ben desideroso di accogliere moneta sonante da chicchessia. Il terzo incomodo: il ruolo degli Stati Uniti. Anche se Washington si è ritirata dal terreno di battaglia, ha scritto il Wall Street Journal, gli americani continueranno, in qualche modo, a relazionarsi coi talebani.
Lo abbiamo già accennato, e vale la pena soffermarvici di nuovo. Se oggi sta andando in scena una sorta di revival dell’originale Grande Gioco, il motivo è da ricercare per lo più nel confronto tra Stati Uniti e Cina. La Cina ha intenzione di espandere a dismisura i propri tentacoli, fino a piantare una bandiera in Afghanistan e controllare, di fatto, una fondamentale rotta commerciale integrabile con la Belt and Road Initiative.
Non solo: osservando a distanza il ritiro americano da Kabul e dintorni, i media cinesi hanno pensato bene di sfruttare la situazione a proprio vantaggio per concentrarsi sugli avvenimenti inerenti alla regione dell’Indo-Pacifico e, più in generale, in chiave anticnese. Il punto è che, lasciando dietro di sé sterminate praterie, la Casa Bianca rischia davvero di perdere tutto, senza neppure poter salvare il salvabile. Certo è che il Grande Gioco 2.0 ha due protagonisti (Usa e Cina) e lo stesso traguardo del primo: conquistare l’Asia centrale.
Le origini del Grande Gioco 2.0
Il Grande Gioco 2.0, parimenti all’originale, è nato e cresciuto qui, nelle terre selvagge e indomabili della nazione pashtun. Ma contrariamente all’opinione comune, che traccia le origini di questa competizione nel dopo-guerra fredda, la stesura della sceneggiatura di questo remake geopolitico è cominciata all’epoca dell’invasione sovietica dell’Afghanistan.
Come nell’Ottocento, a scontrarsi erano la tellurocrazia russa – stavolta rappresentata dall’Unione Sovietica, succeditrice dell’impero russo – e la talassocrazia atlantica – ora costituita dagli Stati Uniti, eredi dell’impero britannico. A differenza dell’Ottocento, però, sarebbero cambiati alcuni attori – con l’integralismo islamico (i mujaheddin) preferito alla potenza di fuoco induista – e, soprattutto, gli spettatori avrebbero assistito ad un epilogo rovesciato, cioè con la tellurocrazia in fuga e la talassocrazia in festa.
Negli anni seguenti, complice l’implosione dell’Unione Sovietica, il resto dell’Asia centrale avrebbe conseguito l’indipendenza, diventando appetibile per tutte quelle potenze interessate a stabilire un avamposto alle porte del cuore del Terra mackinderiano, in primis Stati Uniti e Cina. Gli Stati Uniti, ad ogni modo, avrebbero profittato dell’opportunità soltanto limitamente, perché successivamente coartati a spostare il focus sul terrorismo, lasciando alla Cina l’onere-onore di infiltrare il pivotale spazio turkestano.
Con lo scorrere del tempo, ed il divenire del mondo una realtà crescentemente multipolare, la corsa in solitaria del rinato Impero celeste è progressivamente giunta al termine e nuovi attori sono entrati in scena, tra i quali Russia, India, Giappone, petromonarchie wahhabite, Turchia, Iran e Pakistan. Ognuno di essi è entrato nella pista per soddisfare almeno due obiettivi – come l’India, guidata da ambizioni tanto anticinesi quanto antipakistane, e la Turchia, anelante all’unificazione dei popoli turchici sotto una sola mezzaluna e stella e simultaneamente operante per conto degli Stati Uniti in chiave antirussa – e, inconsapevolmente, ha trasformato l’Asia centrale in una delle arene-chiave della scena mondiale e accelerato la transizione multipolare.
Capire il Grande Gioco 2.0
Guidati dall’obiettivo di avere una comprensione globale e approfondita del Grande Gioco 2.0 – quando, come e perché nasce –, abbiamo raggiunto e intervistato lo storico Giorgio Cella (Università Cattolica di Milano), al quale abbiamo posto una serie di domande.
Dottor Cella, può spiegarci il Grande Gioco in Afghanistan?
Le steppe dell’Asia Centrale e la loro continuazione – che giunge sino all’Iran, all’Afghanistan, al Pakistan e al subcontinente indiano – sono storicamente state delle aree di contesa – quel Great Game reso popolare da Kipling nel suo celebre Kim – tra le più disparate forme di imperi, e lungo le più differenti epoche storiche: dai macedoni di Alessandro Magno ai persiani e agli arabi, dai turchi ai britannici, dai sovietici sino alla più recente fase, ormai giunta al suo termine, della presenza americana. Imperi che, nonostante la loro storica grandezza, davanti all’Afghanistan e alla resilienza bellica delle sue genti, appaiono in un’ottica storiografica come delle realtà transeunte, delle mere comparse poi svanite nell’infinito ciclo dei processi storici.
Oggigiorno si parla tanto di geopolitica – un termine a volte abusato o usato anche più semplicemente a sproposito –; mi piacerebbe qui, invece, riproporre una delle definizioni di geopolitica – proprio con riferimento al quadrante centroasiatico e afgano in particolare – che più condivido: il rapporto tra le variabili politiche – quindi umane – e le costanti naturali – quindi geografiche. Se declinata all’Afghanistan, tale formula si trasla perfettamente: variabili politiche (leggi imperi) in conflittuale rapporto con la costante geografica (leggi Afghanistan) e le sue ostili terre montagnose, che alla luce di quanto abbiamo osservato anche in questi giorni, si conferma tomba degli imperi per antonomasia e, forse, anche tomba dei tentativi di esportazione di democrazia di matrice statunitense neocon.
Dopo questa premessa storiografico-concettuale, è quindi implicito confermare la continuità odierna del Grande Gioco di stampo ottocentesco, sebbene, mutatis mutandis, con attori evidentemente diversi. A ennesima testimonianza dell’imprevedibilità della Storia, nessun analista avrebbe scommesso su una ripresa di centralità e importanza di questa magnitudo dell’Afghanistan nello scenario geopolitico attuale, né tantomeno che tale territorio avrebbe costituito per la superpotenza americana un così grave incidente di percorso e provocato una così ingloriosa uscita di scena nei maldestri piani di ritiro da questo teatro regionale – piani progettati ed attuati, lo si rammenti, dalle due ultime presidenze statunitensi.
Gli Stati Uniti, salvo sorprese, e dopo vent’anni di una guerra dalla genesi opaca e per molti ancora incomprensibile nella sua durata – specie alla luce degli scarsi risultati strategici e dalle condizioni in cui è stata lasciata la popolazione afgana –, hanno completamente abbandonato, come molti altri prima di loro, il paese. L’Afghanistan (e il suo combattivo popolo) rimarrà, invece, con un rinnovato rilievo politico e geostrategico regionale.
Quali differenze vede emergere rispetto al Grande Gioco ottocentesco?
Rispetto al Grande Gioco ottocentesco, nel nuovo Afghanistan che sta sorgendo sulle ceneri del disimpegno americano-occidentale, vediamo un netto spostamento del baricentro degli equilibri di potenza da occidente verso oriente – mutamento geopolitico del potere verso oriente palesato del resto indirettamente anche dal premier italiano Mario Draghi, spingendo maggiormente per la promozione del G20 piuttosto che del G7.
In posizione di power broker primario, sempre in un’analisi comparativa con il Grande Gioco ottocentesco, rimane ora solo la Russia di Vladimir Putin; l’Iran gioca infatti un ruolo minore, limitato all’ambito regionale, così come il Pakistan d’altronde, mentre l’Inghilterra – che ha anch’essa un drammatico passato afgano, segnato da un altrettanto sanguinoso quanto tragico ritiro (1842) –, dopo gli anni assieme agli alleati americani e Nato, scompare anch’essa dal concerto delle potenze che si apprestano ad occuparsi del nuovo Emirato d’Afghanistan dei Talebani.
Dell’Unione Europea nel teatro afgano, di nuovo, poco o niente. La risibile proposta di Emmanuel Macron per la costituzione di una safe zone a Kabul sotto l’egida delle Nazioni Unite – nell’insicuro tentativo di mettersi in qualche modo in luce come elemento attivo in questa crisi –, naturalmente rigettata e financo dileggiata dai vertici talebani, rende, purtroppo, plasticamente l’idea dell’irrilevanza di Bruxelles nei nuovi assetti globali. Una Ue che nella crisi afgana, nel migliore dei casi, si limiterà a una (seppur umanitariamente nobile) funzione di gestione dei flussi di profughi dal paese e ad un’eventuale prosecuzione di attività di cooperazione allo sviluppo, per quanto permetterà il regime talebano.
Il solo umanitarismo, però, non basta nelle spietate e ciniche dinamiche della politica di potenza. Tra le vecchie presenze storiche, invece, ritorna con nuova assertività ed efficacia la Turchia di Erdogan, che, con una buona dose di realpolitik – e anche per la comune appartenenza dei due paesi all’Islam sunnita – ha palesato il suo rapporto con il nuovo emirato afgano dei Talebani – al quale il presidente turco si appresta plausibilmente a concedere il riconoscimento ufficiale in un futuro prossimo –, tramite la gestione dell’aeroporto e della sua sicurezza in joint venture con l’alleato Qatar – gestione negoziata di recente con gli studenti coranici pashtun afgani. Ankara evidenzia così, nuovamente, la sua peculiare posizione nel mondo che cambia, mantenendo il suo essere ago della bilancia in due emisferi: da un lato, come ormai tradizionalmente, in quello occidentale sotto l’ombrello Nato, dall’altro nel nuovo sistema di potenze neo-imperiali revansciste eurasiatiche capitanate da Russia e Cina.
In questo mutato quadro, dove l’aliquota di forze non occidentali risulta nettamente maggioritaria, la Cina di Xi Jinping, nuova superpotenza eminentemente orientale e rivale diretta degli Stati Uniti, svetta su tutti gli altri attori coinvolti. Un impero, quello cinese, che se ne guarderà bene, tra l’altro, dall’entrare nell’infernale pantano afgano manu militari, ma che plausibilmente si limiterà quantomeno in un primo tempo ad esercitare la sua influenza solo sul piano diplomatico ed economico-commericale, facendo proprie le lezioni della storia, da quelle sopracitate di millenni fa, sino a quelle di questi giorni.
Altro (nefasto) elemento di questo nuovo scramble for Afghanistan – qui inteso in termini di influenze geopolitiche e non, evidentemente, di spartizioni – è l’oscuro (sia nella sua genesi che nelle sue strategie e dinamiche) movimento armato, estremista e letteralista salafita, dello Stato Islamico, che con le sue filiali locali arroccate nelle zone a cavallo tra Afghanistan e Pakistan, è desideroso di provocare in modo criminale un aumento ulteriore della fitna (ossia la discordia e la guerra civile tra i musulmani) anche nel già martoriatissimo Afghanistan.
Sebbene la competizione per l’Afghanistan, lungi dal finire, sia ancora in pieno corso, crede che sia già possibile fare un bilancio provvisorio di vincitori e vinti?
Tra i vincitori certi di questa situazione c’è il movimento talebano degli studenti coranici pashtun, che con impressionante resilienza bellica lungo altri vent’anni di guerra e guerriglia, si è riappropriato del controllo pressoché totale del territorio afgano, e lo ha tra l’altro fatto con il placet statunitense in primis (e delle altre potenze coinvolte) siglato con gli accordi di Doha. Se la volontà dichiarata dei talebani di reprimere le forme di terrorismo islamista seminatrici di caos riconducibili all’ombrello ISIS, di istituzionalizzarsi e di rendere lo Stato afgano funzionante verrà implementata rimane certamente ancora tutto da vedere, ma l’intento sembra andare in quella direzione, come testimoniato anche dal desiderio di un ottenimento di un più ampio riconoscimento possibile nella comunità mondiale.
Continuando con gli Stati Uniti, sebbene oggi vengano generalmente additati come i perdenti primari di questa situazione – e ciò è sicuramente condivisibile, soprattutto alla luce degli scarsi risultati concreti in questi vent’anni di gestione del paese e delle modalità disordinate e indecorose del ritiro –, da un altro punto di vista, più interno, ma anche con riflessi esterni, il completo ritiro delle forze americane dall’Afghanistan concretizza il mantra dell’end forever wars, terminando una missione ormai senza più linfa, e sempre più costosa. Da questo, abbiamo due conseguenze immediate:
- Il plausibile rinforzamento della presenza Usa-Nato in altre zone dello scacchiere globale – non mi stupirei di assistere ad un aumentato supporto all’Ucraina e, più in generale, nell’Europa centro-orientale, anche per mostrare assertività globale da parte dell’Alleanza Atlantica dopo l’uscita di scena dall’Afghanistan –, concentrando più forze ed energie nella rivalità con Pechino nell’Asia-Pacifico.
- Un Afghanistan senza forze di stabilizzazione occidentali, malgrado la volontà talebana di voler dare ordine e stabilità al paese, nel medio-lungo periodo potrebbe ricadere nella forte instabilità e nel caos, che potrebbero anche esondare fuori dai confini nazionali. Questo potrebbe costituire un serio problema per il supposto futuro patrocinio della Cina sull’Afghanistan, visto che per l’inclusione del Paese nel sistema della Via della Seta e per l’estrazione delle terre rare, Pechino ha naturalmente bisogno di condizioni interne di sicurezza e stabilità; tali preoccupazioni, come riportato recentemente da Francesco Bechis su Formiche, sono state esternate dal ministro degli esteri cinese Wang Yi al suo omologo statunitense Antony Blinken, con la richiesta a Washington affinché guidi la transizione del paese. Se la Cina ha davanti a sé dei potenziali successi, così come delle potenziali sfide e delle difficili insidie, lo stesso si può dire per Mosca, che se da un lato non si dispiace certamente per la debacle finale americana, dall’altro teme anch’essa, come Pechino, nuove sfide dal terrorismo di matrice wahhabita e dei potenziali spill over di questo in Asia Centrale e nel Caucaso.
Insomma, alla luce dei due punti di cui sopra, nell’orizzonte incerto del nuovo emirato in costruzione, sembra assai probabile che vi sarà ancora chi, fra decenni, scriverà sull’Afghanistan e sulla prosecuzione sempiterna delle dinamiche del Grande Gioco.