Citofonare Giavazzi“. Chi conosce gli ambienti del potere e i corridoi di Palazzo Chigi sa che il detto più ricorrente, nelle ultime settimane è stato questo. Manager in scadenza, candidati alla loro sostituzione per la guida delle partecipate pubbliche, esponenti dell’amministrazione di Palazzo Chigi come il sottosegretario Roberto Garofoli e il capo di gabinetto Antonio Funiciello, boiardi di Stato e funzionari guardano tutti con attenzione all’ufficio del 72enne economista Francesco Giavazzi. Vecchio compagno d’armi del premier Mario Draghi da lui chiamato come consigliere economico. Posizione che, ci assicurano fonti romane che ben conoscono gli equilibri interni a Palazzo Chigi, è nella prassi ben più strategica e rilevante di quanto sia anche sulla carta.

L’economista della Bocconi e dell’Università di Harvard ed ex editorialista del Corriere della Sera è oggigiorno il consigliere numero uno del premier, l’uomo che assieme agli esponenti dell’istituzione di punta dello Stato, il Tesoro, ha la principale voce in capitolo nel sussurrare alle orecchie di Draghi le dritte e i suggerimenti più ascoltati nella decisiva partita delle nomine.

Mario Draghi, ex boiardo e banchiere di Stato divenuto presidente del Consiglio, sta in queste settimane lavorando per rafforzare la fibra dello Stato puntando sul ruolo strategico di quelle partecipate alla cui, turbolenta, transizione dalla piena proprietà statale al mercato ha contribuito da direttore generale del Tesoro negli Anni Novanta; Giavazzi, al contempo, ha compiuto una transizione personale ancora più spiccata, passando da principale alfiere in Italia del liberismo alla anglosassone a uomo decisivo per le nomine e l’attività pubblica del sistema-Paese. In uno degli ultimi editoriali firmati per il quotidiano di Via Solferino Giavazzi aveva iniziato a riconsiderare alcuni dogmi in passato sostenuti, dimostrando grande capacità di analisi alla luce della crisi pandemica e ricordando che “insistere sull’equivoco che il nostro problema maggiore è il debito pubblico significa concentrarsi su un obiettivo di politica economica errato”. Ora nella prassi smentisce un certo pregiudizio da lui avuto in passato sul ruolo delle partecipazioni statali nell’economia nazionale, a cui lui ha sempre preferito l’idea di uno Stato “regolatore”.

Da economista vicino al pensiero del maggiore teorico della macroeconomia mainstram contemporanea, Olivier Blanchard, Giavazzi ha negli anni riconsiderato alcune proposte e ricette ritenute in passato maggiormente funzionali negli editoriali firmati assieme al collega Alberto Alesina, scomparso nel 2020. Nel mondo degli economisti italiani, ha potuto comprendere la necessità di un maggiore ruolo dello Stato e delle sue strutture in quanto attento studioso e conoscitore del ruolo delle istituzioni pubbliche come motore della crescita e del legame tra amministrazione e sistema economico, di cui non a caso le partecipate sono il perno principale.

Di Giavazzi Mario Draghi apprezza il pragmatismo e la capacità di saper leggere la realtà alla luce dei cambiamenti dell’economia e dei sistemi internazionali. Tra i pochi a fregiarsi veramente del titolo di “amico” del premier, dopo la laurea al Politecnico di Milano nel 1972, Giavazzi ha conseguito il PhD in Economia al Mit di Boston dove ha conosciuto il futuro premier, suo compagno di corso nelle lezioni del premio Nobel per l’economia Franco Modigliani. Ora assieme a una stretta cerchia di amici e persone di fiducia – Paolo Scaroni, Franco Bernabè, Giuliano Amato, Gianni de Gennaro – accomunate da un lungo bagaglio d’esperienza, dal ricordo diretto delle mosse e degli errori del rapporto tra Stato ed economia negli Anni Novanta e da una solida fedeltà euro-atlantica Giavazzi si confronta sul premier per la partita delle nomine. Citofonare Giavazzi è imperativo categorico per chi ambisce a posizioni di punta o vuole fiutare l’aria di Palazzo Chigi. Giavazzi, ricorda Tag43, entra senza bussare nell’ufficio di Draghi. Ma è al tempo stesso gatekeeper della stanza dei bottoni di Palazzo Chigi, come ben ha appreso sulla sua pelle Fabrizio Palermo, ad (con ogni probabilità) uscente di Cassa Depositi e Prestiti che non ha potuto avere udienza dal presidente del Consiglio.

L’eterno ritorno della lezione di John Maynard Keynes su scala globale, inaugurato dall’editoriale di Draghi sul Financial Times riguardante la risposta alla crisi pandemica nel marzo 2020, e l’eterno ritorno dell’originale sistema di economia mista a partecipazione pubblica che in Italia anche dopo la fine dell’Iri rimane determinante hanno convinto Giavazzi a una svolta pragmatica e al superamento delle tradizionali posizioni liberiste nel corso dell’ultimo anno. Non a caso le nomine dovranno rafforzare e non indebolire la fibra dell’apparato statale: con la piena consapevolezza del fatto che una classe dirigente legata ai principi dell’interesse nazionale non è in contraddizione con la valorizzazione dell’apertura al mercato che Draghi cerca nel management di gruppi come Cdp e Ferrovie. A Giavazzi è affidato il compito di aiutare il premier a trovare la quadratura del cerchio. Consolidando al contempo nelle istituzioni quel partito trasversale di fedelissimi del premier che in pochi mesi ha reso la confusionaria e contraddittoria stagione dell’era Conte un ricordo. Da “citofonare Casalino” a “citofonare Giavazzi” il cambio di registro è evidente.

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