La stretta cinese a Hong Kong non è una mossa scomposta. Al contrario. L’azione di Pechino nei confronti dell’ex colonia rappresenta il sintomo di qualcosa di molto più grande e complesso. La scelta di prendere in mano la legge sulla sicurezza del Porto profumato non è un atto isolato, è uno dei tanti capitoli che la Repubblica popolare sta scrivendo per diventare una superpotenza globale, una mossa per mettere in sicurezza il cortile di casa.
Hong Kong, in questo senso, sta diventando un laboratorio per capire cosa potrà succedere nei prossimi anni. Quello che è successo negli ultimi giorni, con la decisione del governo centrale di intervenire a gamba tesa sul processo legislativo della città, può essere osservato attraverso due punti di vista diversi: quello della leadership del partito comunista cinese e quello degli abitanti di Hong Kong e della comunità internazionale.
Due punti di vista sulla stretta di Hong Kong
Iniziamo con quest’ultimo. La legge che dovrebbe essere licenziata nei prossimi mesi punterà a perseguire gli atti di sedizione, secessione, tradimento o sovversione. Per i manifestanti pro democrazia questo non fa altro che rompere il modello “Un Paese, due sistemi”, il meccanismo che formalmente permette alla città un ampio margine di autonomia e soprattutto libertà di espressione e assemblea. Libertà, dicono gli attivisti, che spariranno con la mossa di Pechino. Dello stesso avviso è anche la comunità internazionale. I primi a esporsi sono stati gli Stati Uniti, per bocca del segretario di Stato Mike Pompeo che ha parlato apertamente di fine dell’autonomia e ha aperto le porte a possibili sanzioni sulla spinta dell’Hong Kong Human Rights and Democracy Act, votato lo scorso anno. Messaggi di condanna sono arrivati anche da Taiwan, Regno Unito, Australia e Unione europea. Ma per il momento sono rimasti, appunto, solo messaggi.
Questo ci porta al punto di vista cinese. Pechino considera Hong Kong un grosso problema per la sicurezza nazionale. La nuova legge in lavorazione serve al partito comunista per mettere a tacere, non tanto e non solo i dissidenti, ma soprattutto le voci “spartiste” spinte dalle influenze straniere che vogliono usare la città come grimaldello per indebolire la Repubblica popolare. L’avvento al potere di Xi Jinping ha impresso al Paese nuove traiettorie con la volontà di diventare sempre di più una superpotenza in grado di proiettarsi nel mondo. Ma per fare questo ha bisogno di dominare agilmente tutta la regione limitrofa.
Pensiamo, per esempio, alla storia degli Stati Uniti: la trasformazione in superpotenza è arrivata per gradi, ma il passo decisivo è stato quello di fortificare e rendere quasi impenetrabile il confine di casa. La Cina sta ora affrontando lo stesso processo, solo a una velocità maggiore rispetto a quella americana. Non a caso negli ultimi giorni Wang Yi, ministro degli esteri cinese, ha ammonito proprio gli Stati Uniti, sostenendo che i due Paesi sono sull’orlo di una nuova “Guerra Fredda”.
Taiwan, India e Mar Cinese Meridionale: i tre fronti di Pechino
La traiettoria voluta da Xi ovviamente non si sofferma solo a Hong Kong, ma attraversa tutta la regione con un arco molto amplio che va dalla Corea del Nord all’India. Percorrendolo si capisce come Hong Kong sia uno dei punti centrali della nuova muraglia. Tra aprile e maggio sono aumentati gli scontri lungo il complicato confine tra Cina e India. Pechino ha apertamente accusato Nuova Delhi di essersi infiltrata nella valle di Gawlan, un’area contesa del Kashmir cinese e nota anche come Aksai Chin. Il 5 maggio militari dei due Paesi si sono scontrati nei pressi del lago Pandong ma senza vittime. Quattro giorni dopo le schermaglie si sono ripetute oltre mille chilometri più in là, vicino al settore di Naku-La, nel Sikkim indiano. Per il momento gli scontri, come riportato da the Economist, si sono limitati a grottesche risse condotte con pietre, calci e pugni (per via dei protocolli anti armi siglati tra i due Paesi tra il 1996 e 2003). Ma il segno è chiaro: quei confini vanno sigillati.
Più a ovest l’obiettivo segnato sulla cartina si chiama Taiwan. La Repubblica di Cina, dal suo nome ufficiale, resta nel mirino della mainland da sempre, ma negli ultimi anni la pressione è aumentata. Solo quest’anno le forze navali e aeree cinesi sono state protagoniste di sconfinamenti e provocazioni nella zona di identificazione di difesa aerea (ADIZ) di Taiwan in almeno sette diverse occasioni. In particolare, ha fatto notare il ministro della Difesa taiwanese, ad aprile, la portaerei Liaoning e il suo gruppo di attacco avrebbe attraversato lo stretto in due circostanze, costringendo l’esercito locale a mandare aerei e navi da guerra per monitorare i movimenti della marina cinese. Provocazioni che con ogni probabilità si protrarranno anche nei prossimi mesi.
La stampa taiwanese ha scritto che, ad agosto, la marina cinese potrebbe tendere nuove esercitazioni e che forse potrebbero essere coinvolte entrambe le portaerei della flotta, la Liaoning e la Shandong. Nel corso di queste operazioni, ha scritto l’agenzia di stampa giapponese Kyodo, verrebbe anche simulata l’invasione dell’isola di Dongsha, un atollo sud di Taiwan, anche se fonti dell’esercito cinese hanno smentito dicendo che ormai quelle isole non sono più strategiche.
Il baricentro della nuova potenza cinese si sta spostando velocemente verso Sud. Un altro puntello al cortile di casa cinese è infatti il controllo del Mar Cinese Meridionale. Negli ultimi mesi le prove di forza non sono mancate, come un peschereccio vietnamita affondato dalla guardia costiera cinese o pedinamento per diversi giorni di una nave malese impegnata in esplorazioni petrolifere. Ad aprile, le autorità cinesi hanno anche formalizzato il controllo degli arcipelaghi Paracel e Spratly con la creazione di due strutture amministrative, i distretti di Xisha e Nansha, posti poi sotto il controllo della provincia di Hainan. La mossa deriva dalla necessità di riversare negli atolli maggiori risorse così da completarne il controllo. Mentre il governo, tramite il quotidiano media di stato Global Times, ha fatto sapere che la marina è riuscita a far crescere delle verdure nel fondale sabbioso di Woody Island e che quelle verdure possono essere usare per sfamare i militari di stanza sull’isola.
Un momento propizio per le mire di Xi
La stretta su Hong Kong e le pressioni su Taiwan sono facce della stessa medaglia. Sono mosse che avvengono in un momento molto delicato, ma non sono una diretta conseguenza della pandemia da nuovo coronovirus, che in realtà le ha solo accelerate e facilitate. Prendiamo il caso di Taiwan. Nel 1996 Pechino effettuò dei test missilistici nello stretto, come risposta alle prime presidenziali sull’isola. In quell’occasione l’amministrazione Clinton rispose alla provocazione inviando portaerei e navi in segno di supporto a Taipei. Oggi, però, lo scenario è molto diverso e una simile prova muscolare per Washington sarebbe molto più difficile. La Cina di Xii ha una potenza militare e navale ben diversa, accompagnata anche da un sistema di missilistico lungo la costa completamente stravolto e migliorato rispetto al 1996.
Un paragone simile vale anche per la legge sulla sicurezza ad Hong Kong. Un primo tentativo venne fatto dal Consiglio legislativo cittadino nel 2003, ma le feroci proteste lo bloccarono. All’epoca l’economia viaggiava a ritmi sostenuti, ma non aveva ancora il peso globale raggiunto adesso. Peso che invece oggi le permette di fronteggiare l’eventuale biasimo della comunità internazionale senza per questo subire delle ricadute concrete.
In un lungo intervento su Foreign Policy Hal Brands e Jake Sullivan hanno spiegato come la Cina si trovi di fronte a due strade possibili: quella di una presenza massiccia nella regione e quella di un complesso lavoro di soft power che limiti la sfera americana. In realtà Pechino si sta dimostrando abile a giocare le due partite in parallelo. Da un lato con prove muscolari e la costruzione di forze armate moderne e numerose, dall’altro con grandi piani globali come la Nuova via della Seta. Il processo è, però, ancora agli inizi perché allontanare Washington dalla periferia del proprio cortile di casa non è così semplice, come dimostra l’ostilità di diversi Paesi confinanti come Corea del Sud, Australia e Giappone.
La fine della timidezza autoritaria
La spinta economica e diplomatica non sono, però, sufficienti a spiegare la spregiudicatezza cinese. Nel corso degli anni è cambiata anche la percezione di Pechino verso se stessa e il sistema autoritario. Come ha spiegato al New York Times Rana Mitter, direttore del China Center dell’Università di Oxford, la Cina oggi non “si scusa più per essere un regime autoritario“. Pechino è infatti passata dal difendersi dicendo di non essere pronta per forme di libertà democratica, a mostrarsi orgogliosa del proprio sistema mono-partitico.
Lo stesso presidente Xi, aprendo il lavori dell’Assemblea nazionale del popolo, ha ribadito come il sistema cinese sia quello più “genuino ed efficace per salvaguardare gli interessi delle persone”. Una sfida aperta ai sistemi democratico occidentali, alla luce proprio della pandemia, usata come parafrasi per dimostrare che la Cina è riuscita a contenerla mentre le democrazie europee e soprattutto gli Stati Uniti hanno mostrato tutti i loro limiti. Un cambio di sensibilità che sta aprendo le porte verso un nuovo modo di porsi nei confronti dell’esterno, un modo che non tiene più conto di quello che gli altri Paesi pensano, ma solo dei propri interessi.