Menti brillanti, nella maggior parte dei casi formate in prestigiose università straniere, forza lavoro pressoché infinita e ferrea pianificazione dall’alto, accompagnata da ingenti dosi di finanziamenti indirizzati nei settori economici più strategici. Sono questi i fattori economici e sociali più importanti che hanno consentito alla Cina di svilupparsi, al punto di trasformarsi, nel giro di appena quattro decenni, in una specie di alter ego degli Stati Uniti.

Un traguardo impensabile ai tempi di Mao Zedong, quando il Grande Timoniere, ossessionato dal voler superare la produzione d’acciaio di Inghilterra e America, portò il Paese sull’orlo del baratro. All’epoca, infatti, a cavallo tra il 1955 e il 1956, il Grande balzo in avanti, un piano che avrebbe dovuto stimolare la capacità produttiva della Cina, si rivelò un clamoroso buco nell’acqua. Per anni il gigante asiatico rimase a sonnecchiare nella sua tana, fino a quando, nel 1978, Deng Xiaoping abbracciò la strada della gloriosa apertura che cambiò per sempre il volto del Dragone.

Come tutto è iniziato

In quell’anno presero forma le prime Zes, le Zone economiche speciali, cioè aree urbane, inizialmente individuate lungo la costa meridionale, in cui l’economica avrebbe potuto liberarsi dalla pianificazione quinquennale statale e abbracciare il mercato. Le prime Zes furono Shenzen, Zhuhai, Shantou e Xiamen, presto travolte da ingenti capitali stranieri. Fu così che l’economia cinese iniziò finalmente a crescere, anche se, prima di arrivare ai livelli sperati, era necessario attraversare un percorso irto di ostacoli.

Negli anni ’90, e in tutti i primi anni Duemila, la Cina era conosciuta per essere la fabbrica del mondo. Oltre la Muraglia, grazie all’inedita combinazione della capacità manifatturiera locale e alla tecnologia straniera, iniziava a essere possibile produrre oggetti di ogni tipo a prezzi irrisori, con meccanismi neanche lontanamente paragonabili a quelli presenti in Occidente. Giocattoli, vestiti, addobbi natalizi, utensili, articoli per la casa, borse e perfino rudimentali prodotti di elettronica: in Cina si poteva trovare di tutto.

In quel periodo gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali pensavano di aver trovato una sorta di El Dorado ma non avevano ancora fatto i conti con quello che sarebbe successo nell’imminente futuro. In effetti il presente sembrava tutto rose e fiori, con guadagni alle stelle e costi pressoché nulli. Il fatto è che Pechino aveva semplicemente gettato l’esca, in attesa di uscire allo scoperto e mangiarsi l’Occidente non appena fosse capitata l’occasione giusta.

Il cambiamento silenzioso

Gli anni passano inesorabili e le città cinesi cambiano. Le case tradizionali lasciano spazio a grattacieli ultramoderni, le strade accolgono sempre più macchine. In mezzo a tutto questo gli abitanti del Celeste Impero possono finalmente godere di lussi inaspettati, come televisori, cellulari e computer.

Agli albori del Duemila iniziano a fare capolino da oltre la Muraglia i primi colossi cinesi. In quegli anni alcuni analisti si lanciarono in previsioni sorprendenti. “Il mercato cinese è così vasto che creerà mezza dozzina di Microsoft e Oracle nel giro di una generazione”, scriveva la rivista Asiaweek nel 2001. Mai previsione fu più azzeccata.

In effetti fa impressione rileggere le cronache dell’epoca. “Con un fatturato di 2,7 miliardi di dollari, Huawei non è ancora pronta per sfidare sui mercati internazionali Cisco Systems o Nortel Networks. Ma il divario si sta riducendo rapidamente”, scriveva ancora Asiaweek, riferendosi alla stessa compagna che oggi fattura 100 miliardi di dollari all’anno e che, anche per questo, è finita al centro della nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina. Eppure il grido d’allarme degli analisti non fu mai ascoltato: “Il divario si sta riducendo rapidamente. La loro curva di apprendimento è diventata logaritmica negli ultimi 18 mesi”.

Il ruggito del Dragone

L’ingresso della Cina nell’Organizzazione commerciale del commercio (Wto) del 2001 ha definitivamente accelerato il declino occidentale e l’ascesa cinese. Già, perché Pechino ha goduto (e gode tutt’ora) di tutti i vantaggi di un’economia di mercato, soprattutto in materia di importazioni ed esportazioni, pur continuando a dirigere il proprio sistema economico dall’alto.

Ci siamo: ecco che prende forma il socialismo con caratteristiche cinesi, un Frankeisten che riunisce scaglie di capitalismo e dosi di pianificazione socialista. Siamo ormai ai giorni nostri. La Cina non più la fabbrica del mondo. O meglio: continua a importare paccottaglia a basso costo in giro per il mondo, ma non è più quello il canale privilegiato del Dragone.

Ora Pechino ha lanciato i suoi colossi dell’industria alla conquista del mercato – da Huawei a Xiaomi, da Tencent a Suning – è attivo nel settore tecnologico, ha superato gli Stati Uniti nell’intelligenza artificiale e si appresta a piazzare la classica ciliegina sulla torta grazie al piano Made in China 2025, piano economico da alcuni rinominato nuovo Grande balzo in avanti.

Di che cosa si tratta? Entro il 2025, la Cina dovrà diventare autosufficiente nell’alta tecnologia e leader globale. La priorità del governo è una: produrre apparecchiature sempre più moderne e tecnologiche, così da competere ad armi pari con l’Occidente. Detto altrimenti, il governo cinese vuole che le proprie imprese nazionali strategiche, cioè quelle facenti parte di settori sensibili come l’aerospaziale, la robotica, i veicoli innovativi e i nuovi materiali, siano capaci non solo di sfidare, ma anche di surclassare i concorrenti occidentali.

Uno degli obiettivi annunciati dal Partito Comunista cinese, infatti, è quello di raggiungere i primi dieci Stati più automatizzati al mondo, arrivando a contare una proporzione di 150 robot per ogni 10mila dipendenti. Giusto per fare un confronto con gli Stati Uniti, l’anno scorso Washington ha installato 40.300 unità di robot industriali all’interno delle fabbriche. La Cina è arrivata alla spaventosa cifra di 154mila. Il percorso è ancora lungo e il processo appena iniziato.

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