Mario Draghi ha fatto il suo esordio in veste di premier alle celebrazioni del 25 aprile visitando il Museo della Liberazione di via Tasso a Roma e pronunciando un discorso che, ancor più che sul tema della Liberazione dell’Italia dal nazifascismo, sembra parlare al presente, agli affari internazionali odierni in cui l’ex banchiere romano si è visto rilanciato in un ruolo governativo dopo averli a lungo condizionati da governatore della Bce.
Draghi è partito con stile gramsciano, con il suo personale “Odio gli indifferenti”: parlando del dualismo tra chi seguì la Germania nazista e la tragica esperienza della Repubblica Sociale e chi partecipò attivamente alla Resistenza Draghi critica per varie ragioni non prende posizione nelle celebrazioni odierne, ricordando che “non scegliere è immorale, significa far morire un’altra volta chi mostrò coraggio davanti agli occupanti e sacrificò se stesso per consentirci di vivere in un paese democratico”. Draghi parla di ieri per parlare all’oggi, allarmato del fatto che in questi tempi “constatiamo con preoccupazione l’appannarsi dei confini che la storia ha tracciato fra democrazie e regimi autoritari, qualche volta persino fra vittime e carnefici”. Un passaggio che segnala un rilancio di una precisa dottrina sugli affari internazionali, quella focalizzata sul ruolo politico dei diritti umani.
Non sbaglia chi potrebbe vedere in questa mossa un eco dell’affondo delle scorse settimane con cui Draghi ha definito il presidente turco Recep Tayyip Erdogan un “dittatore”. La visione trova conferma laddove Draghi lamenta l’ascesa di un generale senso di comprensione per “il fascino perverso di autocrati e persecutori delle libertà civili”. Perché questi toni? Non possiamo non sottolineare che il discorso di Draghi si inserisce in una generale enfatizzazione della diplomazia dei diritti umani che ha ripreso corpo dopo l’inizio della presidenza di Joe Biden negli Stati Uniti e di cui si erano viste le anticipazioni già nella fase finale dell’amministrazione Trump.
Washington, periodicamente, riprende in mano la fiaccola dei diritti umani nel mondo facendosene alfiere per compattare attorno a sé gli alleati, sdoganare un’arma di pressione contro i più reticenti, alzare la posta verso avversari potenziali, creare un fronte di contenimento verso i nemici esistenziali. La Turchia di Erdogan, in questa fase, rientra nella seconda categoria, Russia e Cina invece sono gli avversari con cui la contrapposizione si fa sempre più estesa. Il governo Draghi, che dell’atlantismo fa la sua Stella Polare in politica estera, non a caso riprende molti modi e toni proposti dall’amministrazione di oltre Oceano. Lo fa per promuovere un’azione energica con la Turchia che sia da base per un vero dialogo politico da cui Roma possa trovarsi in posizione di forza e per poter contribuire al nuovo corso dell’Europa su questo campo. Tanto che la politica nazionale in sede parlamentare è già andata oltre, rilanciando il dibattito sulla persecuzione degli uiguri nello Xinjiang cinese e arrivando ad approvare una mozione ampia (dalla Lega a Più Europa) per la concessione della cittadinanza italiana a Patrick Zaki, lo studente egiziano dell’Alma Mater di Bologna incarcerato da tempo nel suo Paese natale.
L’amministrazione Biden sta riscoprendo in quest’ottica l’uso politico della tematica dei diritti umani nel mondo e della causa della democrazia, secondo un principio che ha le sue radici nel pensiero di Theodore Roosevelt e Woodrow Wilson, alfieri di forme diverse ma egualmente incisive di interventismo, e ha plasmato diverse scelte politiche nelle amministrazioni dell’era post-Guerra Fredda. Certamente è difficile negare la fragilità teorica, sotto il profilo sia della riflessione filosofica che giuridica, della oggettività e metastoricità dei diritti umani soprattutto se letti in relazione al loro rapporti con gli attori statali. I diritti umani hanno, al contrario, una valenza esclusivamente storica e relativa poiché cambiano nello spazio e nel tempo. Ma proprio la loro natura gassosa e impalpabile, nonché l’estremo relativismo con cui una potenza ne può far chiedere l’applicazione, garantisce una maggior capacità di sfruttamento a fini politici.
Biden ha pressato Vladimir Putin definendolo “un assassino” e con la sua amministrazione ha promosso l’idea che in caso di morte dell’oppositore Aleksej Navalny scatteranno sanzioni senza precedenti verso la Russia; il suo segretario di Stato Tony Blinken ha parlato di “genocidio” in relazione alla problematica questione degli uiguri in Cina, e anche uno storico alleato come l’Arabia Saudita è stata duramente colpita dopo la rivelazione del segreto di Pulcinella riguardante il principe Mohammad bin Salman, ovvero il fatto che l’erede al trono fosse il vero mandante del misterioso omicidio del giornalista Jamal Kashoggi. Tutto ciò non ha impedito per anni il proseguimento di floridi legami bilaterali, ma la volontà di Biden di smarcarsi dall’abbraccio stringente con Riad operato da Donald Trump ha visto la causa dei diritti umani ritornare, al momento giusto, fuori dal cassetto.
I Paesi occidentali riprendono dunque il tema della diplomazia dei diritti umani come fattore di compattamento del fronte transatlantico. Anche le prese di posizione dell’Unione europea sul caso Xinjiang, gli affondi del Regno Unito contro il golpe in Birmania e la riluttante accettazione da parte della cancelliera Angela Merkel a possibili ritorsioni contro la Russia sul caso Navalny segnalano che la pressione proveniente da Washington sta portando a una nuova enfasi politica in tal senso. Il rischio per i Paesi occidentali è che si tratti di una vera e propria minestra riscaldata. Il mondo prosegue a colpi di rapporti di forza e c’è sempre meno spazio per le narrazioni funzionali a garantire le scelte di campo. Il tema dei diritti umani si fa, anno dopo anno, sempre meno spendibile sul fronte delle relazioni tra l’Occidente e i Paesi rivali proprio per l’ampiezza dei tempi che dividono i Paesi euroatlantici da rivali veri o presunti e alleati riluttanti sul piano geopolitico. E non aiuta, in tal senso, l’immagine stessa della superpotenza a stelle e strisce. Vittima di violazioni e abusi sul fronte interno in materia di diritti civili e sociali che si ripetono con una ciclicità tale da mostrarne tutte le fragilità interne. Proprio l’esatto opposto degli obiettivi delle offensive diplomatiche sui diritti umani. Che anche Draghi dovrà stare attento a non cavalcare eccessivamente per evitare che una manovra funzionale a saldare i rapporti con Washington si trasformi in un boomerang.